Tu guarda le coincidenze. Ieri Angela Merkel era a Parigi per il vertice sui migranti organizzato da Emmanuel Macron alla presenza dei rappresentanti di Francia, Germania, Spagna e Italia, oltre che di Federica Mogherini per l’Ue, dei capi di Stato di Ciad e Niger e del libico Al-Sarraj. Oltretutto, arrivava a quel vertice dopo l’apertura senza precedenti verso Italia e Grecia, Paesi che a detta della Cancelliera non potevano più sopportare tutto il peso dell’immigrazione sulle loro spalle, tanto da mettere in discussione il Trattato di Dublino. E cosa succede? La cancelliera tedesca viene accusata di aver utilizzato velivoli di Stato a prezzo di favore per gli spostamenti della campagna elettorale in previsione delle prossime elezioni federali del 24 settembre. Una bella bomba a orologeria. Sganciata da chi? Ovviamente dal più filo-americano dei giornali tedeschi, lo Spiegel, il quale ha atteso fino al ritorno della vita politica attiva post-pausa estiva per attaccare la Cancelliera, il tutto a pochi giorni dal voto delle legislative. 



L’accusa, diciamolo subito, è ridicola. Stando al settimanale tedesco, infatti, il capo del governo federale utilizzerebbe abitualmente mezzi dell’aeronautica militare o delle forze dell’ordine per partecipare a comizi, dibattiti e appuntamenti di ogni sorta a carattere elettorale. Nulla di illegale, visto che questa possibilità è prevista a condizione che la Cdu rimborsi lo Stato dei costi sostenuti per quegli spostamenti. E, nel mezzo del periodo di più grande rimescolamento degli equilibri geopolitici ed economici mondiali, a cosa si attacca una testata autorevole come lo Spiegel? All’entità di questi rimborsi. Stando agli esperti sentiti dal giornale, un volo di quattro ore andata e ritorno può costare alle forze armate o alla polizia federale fino a 75mila, euro ma per trasportare la Merkel e due dipendenti, la Cdu ne pagherebbe appena 3mila. Questo in base a un tariffario di 500 euro a tratta a persona, parametrato sui biglietti di business class di Lufthansa. «Un vero affare per il partito della Cancelliera», commenta sarcastico e con enorme sprezzo del ridicolo lo Spiegel. Il quale, guarda caso, nel pezzo deve riconoscere che, non essendo ancora noti tutti i dati, è ancora presto per parlare di uno scandalo conclamato. E perché allora spararlo in quel modo? Chi ha dato l’imbeccata? 



I cristiano-democratici hanno ovviamente protestato la loro innocenza, sottolineando che tutto si è svolto sempre regolarmente, ma, ovviamente, i socialdemocratici di Martin Schulz non hanno perso l’occasione per attaccare la rivale alle elezioni: «È un comportamento altezzoso che dimostra che sta perdendo il contatto con la realtà». Insomma, un comportamento da elite, quello che tanto male ha portato a Hillary Clinton. Ora, partiamo da un presupposto che voglio sia chiaro: questa idiozia venduta come scoop non sposterà una virgola in vista del voto, stante il vantaggio della Cdu sull’impresentabile Spd. Tanto più che lo Spiegel, camminando con le scarpe sporche sul tappeto della deontologia, spara sì accuse, salvo poi dire che non è in possesso di tutti i dati e che quindi potrebbe sbagliarsi: professionalità veramente teutonica. Siamo di fronte al più classico dei messaggi in codice: basta indipendenza in politica estera oppure il venticello della calunnia potrebbe diventare tempesta. 



A Washington, infatti, non piace il nuovo atteggiamento di Berlino verso la Russia e, ancor meno, è andato giù il commento della Merkel relativo alla questione della Corea del Nord: quel “in caso di intervento armato, la Germania non si accoderà automaticamente agli Usa” è sembrato una presa di distanza netta. Non tanto verso la Casa Bianca, con cui i rapporti sono freddi dall’inizio, ma verso quel Deep State, soprattutto militare, che ha tramutato negli ultimi 30 anni la Germania in una colonia Usa nel cuore d’Europa. Anzi, nella colonia Usa per antonomasia, visto che è stata Berlino a dare le carte in seno all’Ue finora. 

Ci sono molte variabili in atto, una delle quali a mio avviso continua a essere sottostimata: al netto di una Polonia sempre più distante da Bruxelles, anche a causa delle continue aperture di procedure d’infrazione contro il governo di centrodestra e di un’Ungheria che flirta pesantemente con Mosca (oggi Orban e Putin saranno insieme a Budapest), tra pochi giorni l’esercito russo darà il via a un’esercitazione militare senza precedenti, 100mila uomini al confine europeo. La Germania, nelle intenzioni Usa, doveva essere il capo-branco della falange Nato in seno all’Ue, ma così con è stato finora: nel suo tour dell’Est europeo di metà agosto, il vero presidente Usa, ovvero il vice Mike Pence, aveva scaldato gli animi dei Paesi ex sovietici con toni da Guerra Fredda, ma nessuno in Europa ha fatto da dinamo a quella retorica. Soprattutto, la Germania. 

E tanto per capire quale sia il grado di disinteresse delle nazioni direttamente interessate dalla campagna anti-russa di Washington, ieri – proprio nel giorno in cui il presidente finlandese Sauli Niinisto era ospite alla Casa Bianca da Donald Trump – il principale fondo pensione finlandese, Varma Mutual Pension, ha scaricato tutte le sue detenzioni azionarie Usa. E sapete perché? «Perché negli Usa non c’è un presidente», ha attaccato il numero uno del fondo, Risto Murto. Insomma, lungi da discussioni di lana caprina, Washington teme che Berlino, presa com’è dalla campagna elettorale, stia lasciando andare alla malora tutta la campagna di coesione anti-russa posta in essere da almeno due anni, con la Germania capofila di ogni proposta di rinnovo delle suicide – per l’economia europea – sanzioni contro Mosca per la Crimea. 

C’è poi la questione economica, prettamente monetaria in questo caso. Il discorso totalmente neutro di Draghi a Jackson Hole ha sì rispedito il cross euro/dollaro sopra 1,18, ma gli americani volevano di più: volevano una Bundesbank più dura sul tapering, in modo tale che il mondo – leggi i mercati – sapessero che la pressa della Bce stava per rallentare il ritmo, spedendo l’euro in overshooting. Invece, come avrete notato, nelle ultime settimane siamo arrivati al paradosso lunare di Wolfgang Schaeuble che difende Draghi dalle accuse della corte di Karlsruhe relativamente proprio ai programmi di stimolo. Pensate che il ministro delle Finanze lo abbia fatto perché ci crede? Pensate che la Bundesbank abbia taciuto perché convinta di farlo? No, il timore è che per giustificare la crisi in arrivo, negli Usa ci si sia convinti che la carta interna – ovvero la mancanza totale di credibilità di Donald Trump – non sia sufficiente e che sia l’Europa, puntellata unicamente dal Qe di Draghi, a dover fungere da catalizzatore. Anche perché, se il dollaro ricomincia a rafforzarsi, saranno i mercati emergenti a fungere da detonatore: e nessuno potrà fermare lo tsunami. 

Attenzione, quindi, ai prossimi giorni e all’avvicinarsi del voto tedesco: per quanto ovviamente la Germania faccia i suoi interessi, in questo momento è l’unico alleato che abbiamo per evitare che gli Usa ci utilizzino come incendio doloso per riscuotere il premio dell’assicurazione, ovvero una Fed che non solo blocca il rialzo dei tassi, ma che si rimette in postura espansiva. Da qui a fine anno, si giocano gli equilibri delle prossime due decadi. L’Europa è debole, in ordine sparso e senza una politica estera: tocca sperare che la Merkel tenga duro e che nessuno dia vita a un’operazione Corbyn 2.0 in Germania. Lo Spiegel ha solo mandato un piccolo messaggio. Ma significativo, essendo stato recapitato nel giorno di un vertice Ue informale come quello di Parigi. Malatempora currunt.