“Una tabella di marcia per la crisi dei migranti”: Le Figaro commenta con realismo e senza enfasi il risultato del quadrangolare di Parigi tra i capi di stato e di governo di Francia, Germania, Italia e Spagna (il presidente Emmanuel Macron, la cancelliera Angela Merkel, Paolo Gentiloni e Mariano Rajoy) al quale hanno partecipato per l’Unione europea Federica Mogherini, per la Libia Fayez Al Serraj (non il generale Khalifa Haftar), i capi di Stato di Niger e Ciad. Anche Gentiloni ha messo le mani avanti tenendo quel basso profilo che ha saputo trasformare in modo di gestire gli affari pubblici: “Ci sono primi risultati, ma serve una strategia comune”, è il suo messaggio. Eppure l’Italia è stata riempita di elogi, sia da Macron, sia in particolare dalla Merkel. Se il presidente francese si è lodato per aver tenuto fede all’impegno preso a Orleans di creare zone sicure in Niger e Ciad, la Kanzlerin ha ringraziato apertamente il governo italiano e quello libico di Al Serraj. Entrambi comunque hanno definito l’accordo tra Roma e Tripoli “un modello perfetto”.



Ma al di là del profluvio di parole e all’autocompiacimento per la riduzione, sia pur piccola, del flusso di disperati attraverso il Mediterraneo, che cos’è emerso in pratica?      Per la prima volta si cerca di affrontare la crisi in modo coordinato e cooperativo tra i principali paesi europei e quelli africani maggiormente coinvolti. Non è poco, anche se è solo l’inizio. In sostanza, si sta profilando una sorta di divisione del lavoro: all’Italia la Libia, alla Francia i paesi centrafricani, alla Spagna il Marocco fino alla Mauritania, alla Germania la fascia che va dall’Egitto alla Turchia attraverso la Siria. Sono stati messi nero su bianchi i sostegni economici ai paesi dai quali provengono i migranti e alla Libia, anche se per ora si tratta di spiccioli.



Il presidente del parlamento europeo Antonio Tajani ha proposto di seguire il modello turco e dare alla Libia sei miliardi di euro. Siamo lontanissimi. Il piano Marshall per l’Africa del quale si parla da tempo con un’enfasi inversamente proporzionale agli stanziamenti concreti, per ora si trasforma in qualche centinaio di milioni che rischia di finire nelle mani di potenti locali, capi tribù, politici delegittimati e corrotti. Dunque, occorre una verifica continua e ravvicinata degli impegni e dei risultati. Tra settembre e ottobre si terrà a questo scopo una nuova riunione in Spagna.          



Nel documento del vertice viene promosso il codice di condotta delle ong; anzi, i capi di stato e di governo chiedono a tutte le organizzazioni non governative che operano in zona di firmarlo. Un successo di fatto per il governo e per il ministro dell’interno Minniti che ha perfezionato a Roma un importante accordo con quattordici sindaci libici: in cambio di aiuti si sono impegnati a frenare gli sbarchi. Approvato anche il lavoro che Roma sta facendo con la guardia costiera libica (sia pur frammentata e in alcuni casi anche legata ai trafficanti) per frenare le partenze: circa 3 mila arrivi in agosto contro gli oltre 20 mila dell’anno scorso.

E tuttavia, dopo aver visto il bicchiere mezzo pieno, bisogna sottolineare che finora c’è una tattica condivisa (e prima non esisteva nemmeno questa), ma è ancora lontana la strategia comune auspicata da Gentiloni. E qui ha ragione Angela Merkel: gli accordi di Dublino non reggono più e forse sono stati un errore fin dall’inizio. La norma secondo la quale deve prendersi cura degli immigrati il primo Paese in cui toccano terra ha messo in crisi l’intera Unione: Italia e Grecia sono i paesi più colpiti, poi c’è la Spagna, ma la Cancelliera non dimentica che nel 2015 fu costretta ad aprire le porte a 800 mila rifugiati, per lo più dalla Siria e dall’Iraq. In un’intervista al quotidiano die Welt ha detto che lo rifarebbe, ma la via giusta è suddividere i profughi nei vari paesi, in modo solidale al contrario del sistema attuale. Rivedere Dublino, dunque, è diventata un’emergenza assoluta, tuttavia su questo l’Unione è spaccata, i paesi centro-orientali sono contrari, ma in realtà non ci sta nemmeno la Francia.

Chiudere la rotta del Sahel che porta i migranti in Libia e poi in Europa, principalmente tramite l’Italia, istituire hotspot come ha proposto Macron nei due paesi africani per smistare le persone in due gruppi: quelli in fuga dalle guerre da accogliere (anzi da valutare) e quelli che emigrano per ragioni economiche da respingere; tutto ciò risponde a un’altra logica, quella di chi dice “blocchiamoli a casa loro e magari anche aiutiamoli”. Quel che manca è una linea su come gestire l’immigrazione in casa nostra, cioè nei paesi europei.

L’Ue non ha (ancora) una politica comune per l’emergenza, tanto meno una politica comune per l’accoglienza. Non esistono le stesse procedure e nemmeno gli stessi principi (lo si è visto con il confronto in corso in Italia sullo ius soli). Continuiamo a non capire, dunque, come sia possibile costruire un fronte unico per gestire un esodo tanto importante non solo in termini numerici, ma ancor più sul piano culturale, sociale, economico con tutte le conseguenze politiche che porta con sé. Gli europeisti senza se e senza ma dicono che il cammino europeo è andato sempre avanti così, a piccoli passi, emergenza dopo emergenza. Sarà, ma oggi non siamo di fronte a qualche aggiustamento sui montanti compensativi e sulle quote latte; c’è di mezzo, com’è evidente, molto di più, è in corso una metamorfosi che attraversa una fetta grande di mondo, dall’equatore fino al circolo polare artico, un rivolgimento geopolitico e ideale che chiama in causa le fondamenta dell’Europa. Non basta certo una manciata di euro a qualche improvvisato cacicco.