Nel mio precedente articolo ho riportato alla memoria, in occasione del triste decimo anniversario dell’inizio della crisi, i fatti salienti che hanno caratterizzato quel periodo e come i principali elementi della crisi non siano stati risolti. Ora voglio qui ripercorrere quella storia e proseguire quel racconto, perché la menzogna sulla crisi che oggi ci viene raccontata proprio in quei tempi si è consolidata: la menzogna del denaro facile che, arricchendo la finanza, secondo l’ideologia liberista, in qualche modo avrebbe arricchito un po’ tutti. A dimostrazione del dominio di questa menzogna c’è da sottolineare il fatto che questa non è nata nel 2007, con lo scoppio della crisi: all’epoca era già dominante.



La riprova di quanto affermo è in uno studio di tre economisti della Banca d’Italia, i quali nell’aprile del 2007 hanno pubblicato uno studio nel quale si domandavano: come mai, vista la moneta in eccesso stampata dalla Bce, non osserviamo inflazione? E la risposta da loro scientificamente rilevata ha coinciso con quanto suggeriva il buonsenso: non osserviamo inflazione perché la moneta in eccesso non finisce a famiglie e imprese, ma nei mercati finanziari. Poi scoppia la crisi: e cosa fanno tutte le maggiori banche centrali? Stampano ancora più moneta! Stampano moneta, ma non risolvono alcun problema, tanto che la crisi attanaglia alcuni grandissimi istituti finanziari mondiali, soprattutto americani, quelli che in seguito, con la solita tendenza alla menzogna, sono stati definiti “too big to fail”.



Si tratta della solita menzogna perché non è vero che sono “too big to fail” (troppo grandi per fallire), ma sono troppo grandi per lasciarli fallire, poiché come conseguenza verrebbe spazzato via l’intero mondo finanziario e bancario mondiale. E pure le grandi istituzioni a livello mondiale se ne sono accorte dopo che, con grandi scossoni al ribasso delle borse di tutto il mondo, è fallita (nell’ottobre 2008) la storica banca americana Lehman Brothers. In un mondo dominato ideologicamente dal libero mercato, per cui ogni intervento dei governi o delle istituzioni era visto come malvagio e negatore dei dogmi irrinunciabili del liberismo, divenne chiaro che quel caso (il fallimento di una banca troppo grande) non doveva più avvenire, costi quel che costi.



Ma costi a chi? Questo è il punto cruciale che non hanno mai chiarito, perché avrebbe svelato la loro menzogna. Sarebbe divenuto chiaro che, quando la finanza guadagna, allora tutti guadagnano, ma la finanza guadagna di più, creando così ancora maggiori disuguaglianze; se invece la finanza perde e l’economia va a rotoli (insieme a qualche banca), allora a pagare siamo noi contribuenti. Per questo dal 2008 al 2012 pian piano la crisi è passata a contaminare gli stati. Infatti, gli stati sono stati coinvolti nel disperato tentativo di tappare le falle create dalla crisi. Un tentativo disperato perché le dimensioni della crisi e dei debiti creati dalle speculazioni folli erano e rimangono troppo grandi anche per gli stati. Senza contare che gli stessi sono già oberati da loro debiti.

Il fattaccio delle menzogne del governo greco, scoperchiato nel 2010, è solo un incidente di percorso all’interno di un quadro ben delineato: l’intervento degli stati per tentare di pagare debiti impossibili da pagare. E così siamo arrivati ai fallimenti di Irlanda e Portogallo: fallimenti di fatto, poiché non sono avvenuti solo per il generoso intervento della Bce, con altro denaro creato dal nulla, ma sempre denaro a debito, cioè da restituire con gli interessi.

Una citazione a parte merita l’Islanda, l’unico Paese dove le manifestazioni di piazza hanno condotto alla caduta del governo, alle dimissioni del banchiere centrale e ai successivi processi e condanne di banchieri. Erano gli anni in cui anche l’Islanda si preparava a entrare nell’euro. Al progetto fu inizialmente data un’accelerata proprio per permettere l’intervento della Bce. Ma il piano criminale fu sventato e gli islandesi evitarono di essere salvati con moneta straniera creata dal nulla che avrebbe significato per loro un fardello insostenibile da pagare. Hanno lasciato fallire le banche, hanno messo in galera i banchieri responsabili e sono tornati a fare economia reale e una finanza al servizio dell’economia. E oggi il Pil cresce di un sontuoso 7,2%. Una bella lezione per tutti noi e per quanto paventano un disastro per la nostra economia “perché in un mondo globalizzato non possiamo permetterci di essere troppo piccoli, verremo travolti dai cinesi”. Questa affermazione basta a evidenziare come l’idea di economia, per certi commentatori, sia di fatto un’economia di guerra, nella quale io vinco e l’altro fa la fame (o il contrario). Ma l’esempio islandese, nei fatti, ha dimostrato la praticabilità di un modello diverso.

In tutti questi anni e in tutti questi giudizi sulla crisi c’è un enorme buco nero, da nessuno evidenziato. Il buco nero è l’assenza o la totale irrilevanza di un pensiero cattolico sulla crisi. Come tutti gli altri, i più importanti economisti cattolici non hanno visto arrivare la crisi e quando si è presentata è totalmente mancata una qualche profondità di pensiero o novità di giudizio. Rinchiusi nel loro orticello dell’”economia del bene comune” non sono mai stati capaci di sollevare lo sguardo o approfondire alcune tematiche cruciali, a partire da quella tematica a me tanto cara e che io definisco la “questione monetaria”. Una questione a me, credente, tanto cara perché secondo me si tratta di una tematica di tipo religioso.

Per dare un esempio di quanto il pensiero sulla questione monetaria (e quindi dell’euro e degli interventi della Bce) sia stato nullo, mi viene in mente un libro-intervista a quello che forse è il maggiore pensatore cattolico: Stefano Zamagni. Nel libro “Economia ed etica” viene ovviamente ampiamente affrontato il tema della crisi. Ebbene, in circa 140 pagine di intervista non si trova nemmeno una volta la parola euro, né la parola Bce. Nessuna citazione, niente di niente; né per approvare, né per contrastare. Niente di niente.

Qui mi tocca rilevare la critica che un blogger ha appuntato nei miei confronti. Dopo avermi messo sul piedistallo delle sue considerazioni, citandomi come “uno dei più grandi esperti finanziari della nostra epoca”, critica il mio pensiero perché nell’analisi della crisi non avrei dato sufficiente rilevanza alla questione fondamentale del calo demografico, come ha fatto il banchiere ed economista Gotti Tedeschi. Voglio essere chiaro su un punto: ho una grande stima di Gotti Tedeschi, che ritengo un grande banchiere e un economista di rilievo. Ma la sua riflessione economica, proprio sul tema della crisi, mi pare limitata.

Rimane assolutamente vero che la cultura ostile alla famiglia e il calo demografico conseguente, che prosegue ormai da quasi 50 anni, è stato un elemento strutturale nella formazione di un modello economico che necessariamente doveva andare in crisi. Com’è vero che, soprattutto per l’Italia, il boom economico degli anni Sessanta ha coinciso con un boom demografico. Insomma, voglio dire che è fin troppo ovvio che un andamento demografico in crescita sostenuta aiuta certamente il Pil. Ma i numeri (di cui un pochino sono esperto) e le date mostrano una correlazione molto lontana temporalmente e molto labile: vi sono diversi casi nel mondo nei quali si mostra che una certa crescita demografica ha portato alla diffusione della povertà. E poi anche i dati italiani non combaciano, poiché la produzione industriale è calata del 25% con lo scoppio della crisi, ma non c’è stato di certo un simile calo della popolazione.

E certe idee, nel mondo tutto sbagliato di oggi, rischiano pure di essere pericolose. Infatti, potrebbero avvallare la menzogna secondo la quale, a compensare la non crescita demografica e la sostenibilità del sistema pensionistico, abbiamo necessità di un sostenuto flusso di immigrati. Una menzogna che si mostra nel fatto che non spiegano come faremo a pagare le pensioni di quelli che oggi sono immigrati. Forse con altri immigrati da accogliere nel futuro? E poi, dopo aver considerato che la crescita demografica è cosa buona per un Pil sano, quale sarebbe la soluzione da applicare? Diciamo a tutti di mettersi a fare figli per tirare su l’economia? E con quali soldi tiriamo su i figli?

Invece io intendo ribadire con forza che occorre cambiare un modello economico sbagliato (e fallimentare) che ha necessità della crescita demografica continua per potersi sostenere. Un modello sbagliato e insostenibile, anche perché i tassi di crescita demografica in tutto il mondo sono in sensibile contrazione. Invece occorre un modello economico che non vada in crisi, anche senza crescita demografica. Del resto, non si capisce perché, in un momento storico nel quale la produzione mondiale è sufficiente a far stare bene tutti, dovremmo stare in crisi perché l’economia e i consumi non crescono.

Il motivo per cui siamo in crisi è semplice: oggi la moneta è debito e non è possibile pagare tale debito con una quantità di moneta maggiore, che non c’è. Finché gli stati non tornano a stampare moneta senza indebitarsi, non c’è modo di uscire dalla crisi, economica e demografica. Invece, tornando a stampare moneta, gli stati potranno sostenere le nuove famiglie e le famiglie numerose senza indebitarsi. Questa è l’unica strada per uscire dalla crisi, sia economica che demografica. Di questo tipo di soluzione, da Gotti Tedeschi e da parte di tutti gli altri economisti cattolici non ho mai sentito parlare. A parte qualche eccezione: mi riferisco a Nino Galloni e Antonio Maria Rinaldi, non noti come cattolici, ma la cui fede personale mi è nota.