Siamo fortunati. In questo periodo stiamo assistendo a fatti che non solo racconteremo ai nostri nipoti ma che, quasi certamente, finiranno dritti dritti nei libri di storia contemporanea. L’ultimo è accaduto tra martedì e ieri: la più breve crisi nucleare della storia. Sono bastate 24 ore, un po’ di can can mediatico e l’ennesima riunione farsa del Consiglio di sicurezza dell’Onu e voilà, siamo passati dal profondo rosso dei mercati e dalla ricerca su Internet su come costruire un rifugio anti-atomico alla normalità più totale, addirittura con le Borse tutte positive e Moody’s che alza le stime di crescita in Italia.
Non vi pare che siamo immersi in un’enorme bolla di presa per il naso, volendo essere educati? Vi pare che una minaccia di conflitto nucleare seria svanisca in 24 ore e senza che nulla sia entrato in campo per mitigare le asprezze dei toni? Ieri Kim Jong-un, di fatto il miglior alleato della Fed, ha minacciato di nuovo: il missile che ha sorvolato il Giappone è stato solo l’inizio, adesso puntiamo alla base Usa di Guam. Ci credete? Chissenefrega, faranno in modo di farvelo credere e di scaricare sulle pur abbondanti spalle del pazzerello di Pyongyang qualsiasi criticità in atto, magari anche le inondazioni in Texas. Le quali, tra l’altro, stanno facendo muovere non poco il mercato petrolifero di carta, con molti soggetti troppo esposti sul lato long che stanno sfruttando i rialzi dovuti alla messa in pericolo delle strutture estrattive per scaricare l’immondizia che avevano a bilancio al parco buoi. E poi, dopo un disastro come quello in atto, vuoi che il governo non dia una mano, tra gli altri, all’industria petrolifera colpita dalla calamità?
Ve lo dico da sempre, siamo in piena teoria dei due ubriachi che si reggono l’un l’altro per arrivare sani e salvi a casa. Il problema è che, per quanto politica, istituzioni economiche e media cerchino di venderci le perline per diamanti, ormai siamo veramente arrivati al raschiamento doloso del fondo. Negli Usa non esiste indicatore macro che non segnali uno squilibrio di sostenibilità ormai al limite, tanto che qualcuno sembra aver deciso di sfidare il muro del suono del ridicolo: peccato che quel qualcuno sia la Fed e questo debba farci preoccupare non poco.
Sfruttando il baccano dei falsi allarmi, la Banca centrale Usa ha davvero dato vita a una di quelle capriole destinate a entrare nella storia di cui vi parlavo prima. Rendendosi conto che la Bce non è un alleato così stabile e credibile nello sport collettivo del calciare in avanti il barattolo della prossima crisi, ecco che i capi economisti della Federal Reserve, nel silenzio totale, hanno appena mandato in cantina una dei miti keynesiani per eccellenza, la curva di Phillips, ovvero il modello economico creato da A.W. Phillips in base al quale inflazione e disoccupazione hanno una relazione stabile e inversa. Qualcosa di intoccabile fino all’altro giorno e una delle pietre fondative del moloch socialista in base al quale la Scuola austriaca di economia — con la sua teoria dei cicli — non esiste: siamo al varco del Rubicone.
E perché proprio ora? Forse perché quel modello è stato una guida fondamentale per le teorie economiche usate dalla Fed per calibrare e parametrare i tassi di interessi? E questo, per decenni. Ed ecco che, invece, un nuovo studio pubblicato l’altro giorno arriva a sentenziare l’incredibile: la curva di Phillips non funziona. Un po’ come Fantozzi che, all’ennesima umiliazione, dice ciò che pensa davvero della Corazzata Potemkin. I massimi economisti della Fed di Philadelphia, infatti, hanno detto che la teoria utilizzata per stabilire i tassi di interesse negli ultimi trent’anni è fallace e a metterci la firma è stato anche il direttore del centro studi, Michael Dotsey, in persona: in base al lavoro appena presentato, il modello di previsione basato sulla cosiddetta curva di Phillips non può in alcun modo aiutare a predire l’inflazione. Ecco un estratto del lavoro, la frase che lo conclude: “I nostri risultati indicano che le politiche monetarie dovrebbero essere molte caute nella loro dipendenza dalla curva di Phillips, quando puntano a rilevare le pressioni inflazionistiche”.
Dunque, due economisti di rango della Fed come Shigeru Fujita e Tom Stark stroncano il Vangelo keynesiano. Di per sé, già una rivoluzione. Ma da notare è altro: il timing. Guarda caso, in questo periodo qual è il dilemma che finge di dilaniare la Fed nella sua strada verso il rialzo dei tassi? La sorprendente decelerazione dell’inflazione Usa negli ultimi mesi, questo nonostante un continuo calo della disoccupazione, ovvero l’esatto contrario della correlazione posta in essere dalla curva di Phillips. Per gli economisti della Philadelphia Fed, a volte un aumento della disoccupazione è stato in grado di predire minore inflazione ma una disoccupazione in calo non ha mai aiutato a predire inflazione in aumento. Alla conclusione si è giunti prendendo in esame e studiando due periodi recenti, gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, quando la Fed rispose a un’inflazione galoppante con aumenti dei tassi così alti e drastici che l’economia Usa finì in recessione: “Le nostre evidenze potrebbero indicare che usando la curva di Phillips si potrebbe aggiungere valore alla politica monetaria durante le fasi recessive ma i nostri riscontri sono lungi dall’essere conclusivi. Non abbiamo trovato invece prove che supportino la bontà di una dipendenza dal modello della curva di Phillips in tempi normali, però, tempi come quelli che attualmente sta vivendo l’economia americana”, concludono gli studiosi. Tempi normali? Questi sarebbero tempi normali? Con gli indici azionari ai massimi ma le ratio scorte/vendite dei settori chiave — retail e automobilistico — che gridano recessione? Tempi normali, con la disoccupazione al 4% ma le dinamiche salariali bloccate?
L’ultimo sondaggio proprio della Fed ci parla di aspettative delle dinamiche salariali ai minimi da anni, sintomo che pur di trovare un lavoro degno di questo nome si continuano ad abbassare le richieste e le aspettative rispetto al salario: sono tempi normali? E se la Fed davvero continuasse ad alzare i tassi, accelerando il processo di sparizione delle politiche espansive, cosa accadrebbe alla dinamica dei buybacks azionari, unico motore dei rialzi degli indici e già oggi in calo del 20% su base annua? Parliamoci chiaro, quello studio è uscito ora perché ora la Fed ne ha bisogno per poter rimettere mano alle prospettive inflazionistiche e, quindi, alla sua politica di normalizzazione del costo del denaro. Siamo veramente al Titanic, se un dogma come la curva di Phillips viene sacrificato sull’altare della prossima riunione del Fomc: il sistema è in ebollizione e serviranno molti storni come quelli di martedì per evitare che la bolla esploda in maniera non controllata. Quindi, aspettiamoci uno stato di guerra nucleare permanente. La Fed ha bisogno di tempo. Tempo che non ha.