Passata è la tempesta. È questo il sentimento che domina dopo il salvataggio a fine giugno delle popolari venete e il via libera a inizio luglio alla ricapitalizzazione precauzionale del Monte dei Paschi di Siena. Con la chiusura dei due dossier di crisi più importanti per il sistema bancario italiano, il peggio appare ormai alle spalle. Lo hanno dichiarato in più occasioni il ministro Padoan, così come il governatore Visco e il presidente dell’Abi Patuelli. Ci godiamo il sollievo per lo scampato pericolo.



Ma perché c’è voluto così tanto tempo per uscire dalle emergenze? Siamo tutti diventati grandi esperti della crisi bancaria italiana. Sappiamo bene che deriva dall’accumulo di 350 miliardi di crediti deteriorati (o Npl, da non performing loans). Dal 2012 hanno cominciato a palesarsi situazioni critiche e dissesti conclamati che hanno richiesto interventi energici. Da allora, è cominciata una partita a scacchi con i nostri partner europei su come attuare quegli interventi. All’apparenza, la contesa ha riguardato il rispetto delle nuove regole comunitarie in materia di aiuti di Stato alle banche (la comunicazione della Commissione del 2013) e di risoluzione e risanamento degli istituti di credito (la direttiva Brrd del 2014).



Come ormai ben noto a chi segue le cronache, il nuovo quadro normativo delinea un percorso di diagnosi e cura fondato sulla prevenzione, sugli interventi precoci, sulla continuità dei servizi finanziari essenziali sotto il vincolo rigido della partecipazione dei privati ai costi del risanamento (burden sharing) nelle situazioni di dissesto conclamato. Tale condizione si traduce in una serie di paletti che limitano o vietano tout court i salvataggi bancari a spese degli Stati, e questo sia per proteggere i contribuenti, sia per incentivare gli investitori a tenere a freno l’azzardo morale dei manager bancari. Tutto molto razionale.



Tuttavia, scavando sotto la superficie, possiamo leggere nelle nuove regole, e nel modo in cui sono state attuate, una preoccupazione contingente della Germania e di altri partner europei: quella di evitare nuovi casi di avvitamento tra dissesti bancari e crisi sovrane come quelli sperimentati e faticosamente arginati in Irlanda, in Grecia e a Cipro. Proprio a Cipro, nel marzo 2013 (prima della Brrd), conosce il battesimo del fuoco il famigerato bail-in, applicato ai grandi depositi convogliati sull’isola dalla Russia. Si voleva che anche in Italia le perdite sugli attivi bancari venissero a galla e fossero assorbite dai detentori del capitale e del debito non assicurato delle banche cadute in dissesto. In assenza di questo argine privato, si paventava, il costo dei salvataggi pubblici avrebbe fatto precipitare una nuova crisi del debito sovrano di proporzioni fatali per la moneta unica.

Non era questa l’idea di bail-in concepita tre anni prima dal Financial Stability Board per le sole banche di rilevanza sistemica globale allo scopo di evitare nuovi casi Lehman Brothers: il “vero” bail-in è un meccanismo di conversione in capitale di debito detenuto da investitori consapevoli. In Europa lo si è invece attuato come strumento generico di “risoluzione” utile per assorbire perdite e ricostituire il capitale in banche di ogni tipo, globali, grandi, medie o piccole. Come nel caso cipriota, il bail-in è stato attivato senza prima costituire un buffer di obbligazioni esplicitamente esposte alla falcidia in caso di risoluzione. In Italia, la massa bail-inable era però costituita in larga prevalenza da obbligazioni bancarie collocate presso famiglie, non oligarchi russi. Pertanto la Brrd è stata recepita nel 2015 con un’ambiguità di fondo rispetto al bail-in, fortemente voluto come meccanismo di salvaguardia dai partner europei, ma di fatto trattato dai regolatori italiani come un’opzione da evitare a ogni costo, per gli impatti devastanti che avrebbe generato sulla fiducia del pubblico verso le banche.

Se leggiamo la successione degli interventi sulle banche in crisi dal 2015 a oggi rimaniamo colpiti dalla varietà delle soluzioni e dalla tortuosità dei processi seguiti per attuarle. Le complicazioni insorte lungo il cammino sono derivate principalmente dalla discordia di visione e di intenti tra l’Italia e l’Europa.

Evochiamo telegraficamente i fatti. Nel 2014 l’Italia aveva aperti i casi di banche medio-piccole in amministrazione straordinaria, come Tercas, Cariferrara, Banca Etruria, Banca Marche e Carichieti. Si contava di risolverli nella maniera tradizionale, con la cessione a banche aggreganti facilitata con apporti a patrimonio del Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd). Si è agito così per Tercas, ma la Commissione ha poi bloccato l’intervento essendo il Fondo un sistema di garanzia obbligatorio, equiparato a un meccanismo di aiuto statale che avrebbe fatto scattare il burden sharing.

Si è quindi dovuto scartare questa via per le restanti “quattro banche”, messe in risoluzione nel novembre 2015, previa svalutazione delle sofferenze al 17% del valore lordo e conseguente emersione di una carenza patrimoniale di vari miliardi coperta dalla svalutazione delle azioni e del debito subordinato e dal contributo forzoso del sistema attraverso il Fondo di risoluzione. Nella partita a scacchi, qui l’Italia ha sacrificato dei pezzi piegandosi alla dure regole della Brrd. Ha così evitato che fossero applicate ancora più severamente dopo, tenuto conto che dal gennaio 2016 sarebbe entrato in vigore il bail-in del debito senior.

La via italiana non è stata però abbandonata. Nel caso delle banche medio-piccole, il protocollo di cura tradizionale prevedeva il risanamento a carico del sistema e la successiva cessione a un gruppo dotato di forza aggregante. Il salvataggio di Tercas mediante cessione alla Popolare di Bari è stato a sua volta salvato creando nel Fitd uno “schema volontario” che ha riproposto l’apporto di capitale aggirando il veto da Bruxelles. Lo risoluzione delle quattro banche non è stata risolutiva: le quattro good bank create dopo lo scorporo degli Npl non hanno trovato facilmente degli acquirenti e alla fine anche quei dossier sono stati risolti alla vecchia maniera, pilotando la cessione di tre dei quattro istituti al gruppo Ubi e del rimanente (CariFerrara) alla Popolare dell’Emilia Romagna. Anche qui sono stati necessari ulteriori iniezioni di capitale “volontarie” a carico del Fitd. Si sta risolvendo in modo sostanzialmente analogo il problema delle Casse di risparmio di Cesena, Rimini e San Miniato, che dovrebbero essere cedute in settembre al gruppo Crédit Agricole con il viatico di una ricapitalizzazione e di una cessione dei crediti deteriorati ancora sussidiate dal Fitd.

Ma anche nel caso delle grandi banche “significative” la mina della risoluzione con bail-in è stata disinnescata. Lo si è fatto nel rispetto delle regole europee, sfruttando fattispecie particolari (la ricapitalizzazione precauzionale usata per Mps) o ipotesi residuali non compiutamente normate (la liquidazione “ordinata” seguita per Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca). I due casi sono diversissimi: per Mps, l’apporto statale consentirà la continuità operativa come gruppo autonomo sotto il controllo temporaneo del Tesoro, passando per la dismissione di gran parte degli Npl. Le due venete sono state invece salvate con la cessione della parte sana a Intesa Sanpaolo, mentre gli attivi deteriorati sono rimasti nelle società messe in liquidazione. Tuttavia in entrambi i casi lo Stato ha finanziato la ricostituzione del capitale cash (con un contributo a Intesa nel secondo caso), azionisti e creditori subordinati hanno condiviso gli oneri del risanamento, gli obbligazionisti senior non sono stati toccati e i detentori retail di titoli subordinati sono stati protetti con la conversione in titoli senior (Mps) o con indennizzi a carico del Fitd (nel caso delle venete, che ripropone il meccanismo già applicato per le “quattro banche”).

Che cosa possiamo concludere? L’Italia vince ai supplementari come nel leggendario 4-3 contro la Germania a Messico 1970? Il paragone non è casuale. Nei mesi scorsi abbiamo assistito a scontri tra ultras delle opposte tifoserie, e ciò non ha giovato a mettere a fuoco i problemi in maniera obiettiva e concorde. Alla fine, con non pochi sforzi, la posizione italiana ha prevalso per motivi di ragionevolezza. Le alternative avrebbero aperto scenari ignoti e forieri di instabilità del sistema oltre che di smarrimento e rabbia dei clienti delle banche. Le soluzioni scelte non sono gratis: i soldi anticipati dallo Stato ammontano a più di dieci miliardi, e potranno essere recuperati in larga parte se i piani di rilancio delle good bank e di realizzo degli Npl andranno secondo le attese. Se le cose andranno male, il Tesoro potrà essere chiamato a rispondere di altri 12 miliardi di garanzie rilasciate.

Da canto suo l’Europa ha concesso molto, ma ha anche ottenuto parte di quello che desiderava: l’uscita dal mercato di banche con gestioni non sostenibili, la concentrazione dell’offerta su gruppi sperabilmente solidi e lo scarico di una massa importante di credito deteriorato. Tutti soddisfatti, allora. Per il momento sì, ma anche pronti ad affrontare una tabella di marcia impegnativa al rientro dalle ferie. I percorsi di risanamento devono essere attuati. Altre parti del sistema (penso al credito cooperativo) potrebbero necessitare di una messa in sicurezza di alcune componenti. La normativa cambia e costringe a incessanti adeguamenti, per non parlare della tecnologia, dei modelli di business e del quadro macroeconomico. Negli ultimi mesi si sono chiarite molte cose e si sono evitate scelte distruttive. È ora che il meglio delle energie si concentri sui cambiamenti necessari per ricostruire.