TELECOM, ENEL E VIVENDI. Le statistiche comparate sulla digitalizzazione e sulla velocità di navigazione in rete sono sconfortanti: quale che sia la fonte, siamo tra i cinquantesimi e cinquantacinquesimi nel mondo, al livello quindi di un Paese in via di sviluppo. Da anni, economisti italiani e stranieri sottolineano che questa è una delle determinanti della bassa produttività del Paese e, quindi, della bassa crescita e della scarsa competitività internazionale.



Tra le determinanti c’è il nodo della rete Telecom. La rete – si dice – è quello che gli economisti chiamano un “monopolio tecnico”, che differisce da un “monopolio naturale” (come essere dotati di petrolio, di cobalto o di diamanti) in quanto è nell’interesse della collettività che ci sia un solo produttore e fornitore per ragioni di economia di scala (soprattutto in materia di tecnologia) e di efficienza produttiva. È possibile che quando la telematica faceva i primi passi, l’esistenza di un “monopolio tecnico” fosse nell’interesse della collettività. Oggi certamente non lo è più, posto che non vogliamo considerarci al livello del Burundi.



Dal punto di vista logico è difficile comprendere che il “monopolio naturale” (e aziende da lui “figliate”) operi in un settore dove la concorrenza è spietata come sanno tutti coloro che ricevono sui propri cellulari, senza averle sollecitate, “offerte” da questo o da quell’operatore di telefonia. Inoltre, l’apparato tecnologico del monopolista pare essere fatiscente, come sanno tutti coloro soggetti a frequenti disservizi: il vostro chroniqueur non riesce ad utilizzare la telematica da metà luglio (nonostante il venditore avesse giurato che il provider nulla aveva a che fare con la rete Telecom) a ragione, secondo il provider medesimo (che ha smentito il proprio venditore), di un guasto nella vetusta cabina Telecom nei paraggi dell’abitazione e dello studio del chroniqueur. Quindi, all’inefficienza del sistema si aggiunge la prassi di alcuni rivenditori di raccontare una cosa per un’altra al fine di indurre potenziali “polli” (me compreso) a firmare contratti. Ciò suggerisce che il “monopolio tecnico” è anche “criminogeno”, per parafrasare il titolo di un bel libro di Giulio Tremonti. C’è da chiedersi cos’hanno fatto le autorità di regolamentazione e vigilanza sulla concorrenza, sul mercato e sulle comunicazioni. Sempre che non siano divenute prigioniere di Telecom.



Quindi, dato che siamo in fine di legislatura, uno degli obiettivi prioritari del Governo che si formerà dopo le elezioni della primavera 2018 dovrebbe essere quello di far cessare il “monopolio tecnico” di Telecom sulla rete. Tanto più Telecom è ormai guidata da un management di un Paese straniero, uso a rompere gli accordi con l’Italia senza fare troppi complimenti. In passato, si sarebbe “espropriata” la rete e messa all’asta. La difficoltà è come farlo. Era il settembre 2006 quando le indiscrezioni sul Piano Rovati evidenziavano la volontà del governo Prodi di rimettere in discussione la proprietà della rete di Telecom Italia, privatizzata dallo stesso Prodi nel 1998. Ne seguì una battaglia in Parlamento, dove il centrodestra si indignò per l’interferenza del pubblico su un asset di una società privata. Poi furono i concorrenti di Telecom a sollecitare un tavolo per far nascere la società della rete in cui tutti avrebbero partecipato in nome dello sviluppo della banda larga in Italia. Quando Telecom si convinse che in base alle nuove direttive europee c’erano le condizioni per una separazione della rete, arrivò la stretta di Telefonica che costrinse Telecom a una rapida marcia indietro.

Ora che Telefonica si è ritirata, Telecom ha tentato l’affondo su Metroweb per dare una scossa agli investimenti sulla fibra. Ma è incocciata nell’opposizione di esponenti politici di varia natura, mentre nell’entourage di Renzi hanno cominciato a studiare uno scorporo forzato nel caso di attacco dall’estero, facendo leva sulla nuova Golden Power. Una nazionalizzazione in difesa dell’interesse nazionale seguita da una parziale riprivatizzazione, visto che si prevedono altri privati a fianco dello Stato al 51%.

La separazione della rete dall’incumbent – che sotto la gestione di Franco Bernabè era arrivata a uno stadio avanzato di lavorazione – si tradurrebbe in Piazza Affari nello sdoppiamento di Telecom in due società quotate con lo stesso azionariato: e cioè, almeno inizialmente, 24% Vivendi, 76% il mercato. Da una parte ci sarebbe la Telecom della rete, dall’altra la Telecom dei servizi e della media-company che i francesi hanno iniziato a plasmare. Si stima che la rete abbia un valore di carico di 14 miliardi e produca un Ebitda dell’ordine di 1,7-1,8 miliardi: ai multipli di mercato, l’enterprise value potrebbe arrivare anche a 20 miliardi. Una società puramente infrastrutturale potrebbe sopportare fino al 60% di debito, senza perdere l’investment grade. Ciò significa che alla newco potrebbero essere trasferiti 12 dei 32-33 miliardi che pesano su Telecom e che la società potrebbe quindi valere in Borsa intorno agli 8 miliardi, appunto con l’equity al 40%.

Un presidio del 10% costerebbe 800 milioni e sarebbe agevolmente alla portata anche di tasche pubbliche. Sempre ammesso che non ci si convinca che c’è spazio per due reti su tutto il territorio nazionale. In questo caso, la seconda rete sarebbe quella di Open Fiber, joint venture di Cdp ed Enel. In una visione liberale, due reti sono meglio di una, se non altro perché alimenterebbero competizione. Un segnale interessante è l’accordo raggiunto il 3 agosto da Open Fiber e Acea per cablare Roma.

Naturalmente non è una prospettiva che fa gioire i nostalgici del monopolio. C’è chi delinea uno scenario secondo il quale Open Fiber finirebbe per confluire nella Telecom-servizi. Vorrebbe dire che, senza mettere nuovamente mano al portafoglio, sono i due azionisti paritetici nella joint venture della fibra – e diventerebbero automaticamente soci rilevanti, pur se non maggioritari, dell’arteria portante delle telecomunicazioni nazionali, che non avrebbe difficoltà ad attrarre capitali pazienti anche dall’estero. Così articolata, la società unica della rete risponderebbe alle esigenze di quella parte della compagine istituzionale che persegue l’obiettivo di una piattaforma infrastrutturale di telecomunicazioni neutrale e aperta a tutti. Ma al contempo assicurerebbe un presidio pubblico non invasivo.

Si sono delineate due ipotesi. Ce ne sono anche altre. Occorre comunque risolvere al più presto il problema.