Sembra ieri, anzi oggi. Nell’estate 2007 il governo Prodi aveva messo al lavoro la Goldman Sachs di Claudio Costamagna (oggi presidente della Cassa depositi e prestiti) per scorporare la rete Telecom e para-nazionalizzarla preso la stessa Cdp. Ma nel durante l’azionista di controllo Pirelli – affiancato da Intesa Sanpaolo e UniCredit – imbastì trattative per l’ingresso in Tim di partner internazionali come il magnate sudamericano delle tlc, Carlos Slim, e soprattutto il media mogul di Sky, Rupert Murdoch. Sullo sfondo: la nascita di un polo internazionale che avrebbe potuto attrarre anche Rcs e/o Mediaset. Ma la tela s’ingarbugliò e non si fece nulla di nulla. Tutti restarono con un pugno di mosche in mano (a cominciare dal Pd, che pochi mesi dopo perse le sue prime elezioni) o con l’amaro in bocca: compresi quei commentatori che nella calura di metà 2017 attorcigliano la lana caprina dell’interesse nazionale. Un vessillo che neppure Prodi – privatizzatore liberista, fra Europa e globalizzazione finanziaria – brandì allora con molta convinzione.
Troppo massiccia e pronunciata era stata – per un ventennio – la campagna politico-culturale tesa a sradicare ogni richiamo all’interesse nazionale, sempre demonizzato come gemello dell’intervento statale in economia, male assoluto. Troppo netto lo scarto fra l’economia mediatica e quella reale, fra il globalismo da convegno e la durezza quotidiana della diplomazia economica (quella in cui pochissimi italiani hanno veramente eccelso: Enrico Mattei, Guido Carli, Albertino Marcora).
Ora come allora, in una Seconda Repubblica più immobile che mai, resta anche il dossier Autostrade ad agitare tutte le cattive coscienze dell’Italia ideologicamente disinteressata al proprio interesse nazionale. Dieci anni fa i Benetton avrebbero venduto volentieri alla spagnola Abertis il pedaggificio monopolista consegnato loro dieci anni prima dal Prodi 1 (con Carlo Azeglio Ciampi e Mario Draghi in plancia al Tesoro). Allora fu Tommaso Padoa Schioppa, erede del ciampismo-draghismo in via XX Settembre, a sporcarsi le mani bloccando l’operazione per decreto: ma con la malavoglia di chi era stato direttore generale dell’Antitrust a Bruxelles e consigliere anziano nel primo esecutivo Bce. Prodi, d’altronde, non poteva consentire che i Benetton – storici beniamini di un neocapitalismo italiano fuori dal circuito Mediobanca – chiudessero all’estero una maxi-speculazione su un’azienda-Paese che lui stesso aveva loro quasi regalato.
Se lo stop parallelo su Telecom fu dettato anche dal sospetto (non infondato) che Silvio Berlusconi fosse controparte occulta del piano Pirelli. Prodi non ebbe comunque scrupolo a fermare un progetto che “d’interesse nazionale” come lo scorporo della vecchia rete Telecom e la sua modernizzazione digitale come piattaforma-Paese. Nell’agosto 2017 la stessa rete del piano Prodi-Rovati – invecchiata di dieci anni – è al centro di una partita intricata in cui il Paese e il suo governo (a guida Pd) sono più deboli di un decennio fa .
Da un lato Tim è stata letteralmente abbandonata al controllo francese di Vivendi. Dall’altro sono chiari i limiti e l’artificiosità del tentativo Open Fiber perseguito dal governo Renzi di sviluppare una strategia digitale “nazionale” attraverso Enel, a prescindere dalla rete “nazionale” di Tim. Non bastasse, il caso Tim è oggi strattonato da un lato dal caso Fincantieri, dall’altro dal caso Mediaset: due declinazioni entrambe problematiche del nodo “interesse nazionale”, per di più ormai quasi in campagna elettorale. Un passo più in là, il nuovo dossier Austostrade-Abertis – oggi in parte rovesciato con le resistenze spagnole a una fusione a guida italiana – ricorda al sistema-Italia quanto la cultura dell’interesse nazionale meriterebbe ben altro che lacrime di coccodrillo: così simili a quelle che – da dieci anni – liquidano come “incidente di percorso” la grande crisi finanziaria.