Il decimo anniversario della crisi dei subprime sarà immancabilmente l’occasione per analisi su quello che è accaduto e quello che ci attende. Tra le tante pubblicate da figure autorevoli, ieri spiccava quella sul Corriere della Sera dei soliti Alesina e Giavazzi. Giusto per contestualizzare ricordiamo che il 20 agosto del 2007 Alesina descriveva i primi sintomi che si registravano sui mercati come “una correzione come ce ne sono state altre” e spiegava di “non vedere lo scoppio di una bolla come quella della new economy”; Giavazzi nell’agosto del 2007 spiegava che “la crisi del mercato ipotecario americano è seria, ma difficilmente si trasformerà in una crisi finanziaria generalizzata”. Fatta questa “contestualizzazione”, ieri i due autori ci spiegavano che la grande depressione è stata evitata grazie alle politiche di immissione di liquidità e alla decisione di salvare le banche. 



Purtroppo per noi italiani, l’Italia non ha voluto e saputo salvare le sue banche per tempo, e su questo potremmo perfino essere d’accordo, anche se bisognerebbe poi spiegare come mai l’Europa si sia dimostrata così inflessibile quando ci siamo arrivati, e non ha potuto fare ricorso al debito statale, come gli altri stati, perché era già alto alla vigilia della crisi. L’austerity italiana del 2011 era inevitabile e giusta perché non potevamo permettercela altrimenti, perché i mercati “temevano un ripudio”. Ricordiamo che le preoccupazioni dei mercati per il debito italiano si sono esaurite nel giro di qualche mese esclusivamente per l’intervento della Bce, che anticipato di sei mesi avrebbe evitato all’Italia una recessione devastante. 



Facciamo finta di non notare che i due autori salutino l’intervento delle banche centrali come decisivo per evitare l’intervento della crisi, ma si dimenticano di dire che quell’intervento in Europa è arrivato solo dopo aver obbligato l’Italia alla devastazione dell’austerity di Monti. Non possiamo neanche credere che i due autori non sappiano che da almeno cinque anni i rendimenti delle obbligazioni statali e societarie sono ai minimi e che a nessuno importa dell’esplosione dei debiti pubblici, Stati Uniti inclusi, proprio per l’assistenza delle banche centrali. L’austerity inflitta all’Italia continua a essere un passaggio senza spiegazioni razionali al di fuori di uno scontro all’ultimo sangue tra partner europei.



La questione principale oggi è un’altra ed è come rispondere, usando i termini di Alesina e Giavazzi, “alla scarsità mondiale di domanda”. Per i due autori la strada adottata nel ’29 con l’intervento statale e il debito oggi ci è preclusa. La domanda mondiale quindi può arrivare solo dai Paesi emergenti (Cina e India in primo luogo) e per questo bisogna impedire che finisca la globalizzazione con il nazionalismo economico. “Per questo il nazionalismo di Trump è preoccupante”. 

Ancora una volta come nel 2007 l’analisi è completamente sbagliata. Trump, a prescindere da quello che si pensi, è l’espressione di un’America che sta molto peggio di quello che dicono le sue statistiche economiche o la performance dei mercati azionari; un Paese in cui le diseguaglianze tra ricchi e poveri non sono mai state così grandi e in cui non si può aumentare lo Stato sociale proprio perché le imprese americane sono obbligate a competere con quelle di una dittatura in cui i diritti dei lavoratori non esistono. L’economia di Facebook o Google o Apple basta per qualche milione di posti di lavoro estremamente ben pagati, ma lascia una grande percentuale dei 350 milioni di americani sulla soglia della povertà. Quello che manca all’America sono decine di milioni di buoni posto di lavoro con benefici sociali che oggi rimangono in Cina e alimentano l’economia di uno Stato aggressivo in modo preoccupante. Trump non è la causa del problema, ma l’espressione, incompresa dai grandi giornali, del forte disagio di un grandissimo strato della popolazione completamente dimenticata nei racconti dei successi di Steve Jobs o del fondatore di Facebook. 

La ricetta di Alesina e Giavazzi: globalizzazione, costi e tasse basse e maggiore produttività e innovazione, significa nei fatti la distruzione dello Stato sociale e la creazione di poche super imprese con super salari, quelle che stanno in cima alla catena dell’innovazione e riescono a non pagare le tasse, e decine di milioni di lavoratori part-time a Mcdonald’s con stipendi da fame. I lavori ben pagati e dignitosi persi in America o in Europa, in Cina diventano lavori da incubo. La celebrazione dei successi degli ultimi dieci anni di Alesina e Giavazzi in cui si è evitato che la grande recessione diventasse la grande depressione è frutto della stessa incapacità di comprendere non solo l’origine del fenomeno Trump, ma anche la fase estremamente preoccupante che attraversiamo; una fase in cui si difende ciecamente una globalizzazione che fatta in questo modo sta solo esportando disoccupazione e povertà nel primo mondo permettendo, tra l’altro, l’emergere di fenomeni stile Trump. 

Esattamente come dieci anni si difendeva il libero mercato finanziario evitando di riconoscere le sue storture e non accorgendosi della crisi che arrivava, oggi si difende la globalizzazione non accorgendosi di quella che arriverà, esaltandosi per dei successi che nei fatti non esistono.