Signore e signori, la Bce continua a stampare, tapering addio. Mentre il Giappone sfrutta la crisi nordcoreana per — di fatto — espandere ancora il suo fallimentare programma di acquisto assets attraverso il moltiplicatore bellico del Pil (il ministero della Difesa nipponico ieri ha chiesto un aumento record del suo budget per il 2018, il corrispettivo di 40,5 miliardi di euro), la Bce grida al mondo che il Re della guerra valutaria è nudo: con una settimana di anticipo sul board dell’Eurotower, ieri la Reuters rendeva noto che “le preoccupazioni per una sovra-valutazione dell’euro potrebbero rimandare la decisione riguardo al programma di QE o portare a una più graduale uscita dall’acquisto di assets”.
Boom, la valuta comune europea, salita l’altro giorno sopra la quota psicologica di 1,20 sul dollaro — ribattezzata nelle segrete stanze di Francoforte, “la linea rossa tracciata nella sabbia per i profitti corporate europei” — è scesa nettamente, addirittura sotto 1,18. Come dire, la festa può continuare nell’eurozona, così come la propaganda relativa a un crescita robusta e sostenibile dell’economia del Vecchio Continente: come vi dico da sempre, dipende tutto dalla Bce. La quale, sempre attraverso Reuters e in fonte anonima, ha reso noto che “l’euro forte sta spaventando un sempre crescente numero di membri del Consiglio direttivo”.
Insomma, vi avrò anche rotto le scatole tutta estate con la questione euro/QE ma, alla fine, non avevo poi tutti i torti. E la questione è particolarmente preoccupante per il timing con cui arriva. Anche i sassi, al netto della malafede o dell’ordine di scuderia del silenzio, sapevano che gli Usa stavano lavorando per un indebolimento del dollaro al fine di massimizzare il dato dell’export e che il ricasco automatico, ovvero l’euro in apprezzamento, avrebbe causato preoccupazione: si è negato finché si è potuto, addirittura con Mario Draghi che arriva ad anticipare ai mercati la decisione di tenere un discorso assolutamente generico a Jackson Hole, senza alcun riferimento alla politica monetaria, pur di non ingenerare aspettative o fraintendimenti.
La riunione della Fed, con il suo comunicato da colomba, avrebbe potuto spingere la Bce a parlare ma, anche in questo caso, si è stati silenziosi. Tutto l’interesse era concentrato sulla riunione del board di settembre, destinata a diventare giocoforza lo spartiacque rispetto al tapering e al suo timing: di colpo, ieri cambia tutto. Quanta pressione stava macinando il cross euro/dollaro sui contratti futures, per decidere un cambio simile di politica e, di fatto, un contrattacco in grande stile alla svalutazione americana?
Io temo che a muovere l’Eurotower siano stati i dati dell’export europeo di agosto, sicuramente già visionati a Francoforte e invece ancora in attesa di diffusione per noi comuni mortali: al netto del calo dei volumi dovuti al periodo estivo, il mese appena concluso è stato quello che per la prima volta da almeno un anno e mezzo ha visto le aziende europee — prime beneficiarie del QE, attraverso l’acquisto di bond corporate che garantiscono finanziamento diretto e a costo zero — fare i conti con un euro di nuovo forte nei confronti di un dollaro ai minimi ciclici. Una dinamica talmente disastrosa da mettere non solo a repentaglio gli effetti benefici del QE ma, soprattutto, dal sancire una crisi di sistema per il nostro settore corporate, in caso si partisse davvero con il tapering? Temo di sì. Altrimenti perché anticipare questo orientamento ieri, attraverso fonti anonime rilanciate da un’agenzia di stampa e non attendere una settimana e comunicarlo ufficialmente nella conferenza stampa che seguirà la riunione del board?
D’altronde, a livello formale, la Bce non si trova in una condizione molto differente da quella della Fed, visto che il dilemma politico è quello di conciliare una robusta crescita del Pil con un tasso di inflazione ancora distante dall’obiettivo del 2% e che vede le prospettive a 5 anni in netto undershoot sullo stesso. C’è però una differenza, sostanziale: la Fed non deve fare i conti con un’entità economica spaccata in due come l’eurozona, divisa fra Paesi del Nord a guida tedesca e il cosiddetto Club Med, ovvero Italia, Spagna, Portogallo e Grecia che vedono ancora livelli macro ben distanti dalla media europea e criticità fortissime e irrisolte, come il tasso di disoccupazione giovanile.
Certo, Moody’s ci ha alzato le prospettive di crescita ma, al netto delle acrobazie di governo di queste ore rispetto al tema occupazionale e previdenziale (si vede che il voto regionale siciliano si avvicina), quel poco di crescita presente è data dall’export solido: quindi, dalla Bce e dal suo finanziamento diretto alle imprese attraverso il QE.
Due i problemi immediati. Primo, un forte apprezzamento dell’euro si configura, di fatto, come una contrazione monetaria, ovvero l’equivalente di una aumento dei tassi di interesse. Secondo, la mossa della Bce ha immediatamente fatto balzare all’insù il rendimento del Bund, fattispecie che certo non rende felice Berlino, visto che — di fatto — è stato sancito lo spostamento in avanti a tempo indeterminato delle misure di stimolo. C’è poi il problema ulteriore, proprio legato ai Bund: avanti di questo passo con il controvalore di acquisti mensili, prima della fine dell’anno la Bce rischia di non avere letteralmente più carta tedesca da monetizzare.
Quindi, ora la sfida ulteriore della Bce è davvero ciclopica, non fosse altro nei confronti delle montanti pressione tedesche, destinate da oggi ad aumentare: cambiare nuovamente i parametri base di acquisto del programma, di fatto sancendo la sua quasi perpetuità, esattamente come in Giappone. Si abbasserà ulteriormente il requisito di rating per l’acquisto? Varierà la scadenza per l’eligibilità dei bond? E chi lo dirà a Schäuble e alla Bundesbank, con il voto tedesco a meno di un mese da oggi? Oltretutto, c’è anche la questione dell’acquisto di bond sovrani, visto che per ragioni legali difficilmente ci si aspetterebbe che la Bce rimuova il cap che limita gli acquisti a solo un terzo del debito di ogni nazione, limitazione ribadita nella sua validità dallo stesso Draghi solo il luglio scorso nel suo discorso a Sintra, in Portogallo.
Insomma, lo scenario da resa dei conti che ho cominciato a prefigurarvi a fine luglio, è diventato realtà. Ora, vediamo se Mario Draghi merita davvero l’appellativo di Supermario. L’attesa è breve, giovedì prossimo qualche carta dovrà per forza finire sul tavolo. Scoperta, stavolta.