“Lavoro e crescita saranno le priorità della manovra”, ha detto ieri Paolo Gentiloni inaugurando a Bari la Fiera del Levante. Come? Nei prossimi giorni al ministero dell’Economia cominceranno a mettere in fila i dati fondamentali per confezionare la legge di bilancio. Nella colonna dei più, c’è l’accelerazione della congiuntura: se i prossimi trimestri andranno bene come i primi due, il prodotto lordo in termini reali quest’anno aumenterà di un punto e mezzo, il risultato percentuale migliore dal 2011. Contribuiscono le esportazioni, ma non solo: la vera novità è che aumenta la domanda interna anche nei servizi. Ciò offre maggiori margini di manovra alla politica economica che deve continuare a stimolare la crescita perché in ogni caso il livello del Pil italiano resta inferiore di oltre sei punti rispetto a prima della crisi. Dal 2008 al 2013 si è perso un milione e 90mila posti di lavoro — ha ricordato Gentiloni — e negli ultimi tre anni ne sono stati recuperati 900mila; ma la disoccupazione resta sopra l’11%.
E veniamo, così, alla colonna dei meno che si apre con due cattive notizie: un euro forte (a 1,2 rispetto al dollaro) che rischia di danneggiare l’export e un’inflazione troppo debole. Mario Draghi ha lanciato l’allarme giovedì scorso. La Banca centrale europea, nonostante i tassi a zero e l’acquisto di titoli sul mercato, non riesce a centrare l’obiettivo di un aumento dei prezzi al consumo del 2%. Sono all’opera fattori strutturali (per esempio il basso prezzo del petrolio, l’innovazione tecnologica che fa cadere i costi, la concorrenza dei paesi dove i salari sono bassissimi) che difficilmente potranno essere intaccati dalla sola politica monetaria. Dunque, anche se è stata scongiurata la deflazione tipo anni Trenta, vivremo ancora a lungo in un mondo a bassa inflazione. Per l’Italia è un problema molto serio.
E’ vero che il potere d’acquisto dei salariati, in una fase storica in cui le retribuzioni ristagnano, viene conservato grazie ai prezzi bassi, ma l’impatto sulle imprese non è positivo, soprattutto impedisce di realizzare per via automatica la riduzione del debito pubblico rispetto al prodotto lordo. Perché ciò avvenga, infatti, conta il Pil nominale, non quello reale, e qui viene il guaio. Infatti il deflatore, cioè l’insieme dei prezzi di beni e servizi, resta attorno allo 0,8%. Dunque non basterà la crescita a fermare la scalata del debito, occorre tagliare le spese e/o aumentare le tasse con il rischio di frenare la ripresa.
L’Italia che finalmente torna a crescere, insomma, si presenta di fronte ai mercati con il suo solito fardello: un debito troppo alto il cui costo, finora contenuto grazie alla politica di Draghi, tende a salire a mano a mano che la Bce riporterà la sua politica monetaria entro la norma, come richiede con insistenza la Germania dove fra due settimane si vota.
Il risultato delle elezioni è l’altra variabile che Pier Carlo Padoan sta soppesando. Il ministro dell’Economia ha incassato all’annuale kermesse di Cernobbio gli incoraggiamenti di Pierre Moscovici e Jeroen Djjsselbloem, cioè i dioscuri delle politiche fiscali nell’area euro. Ma non si fa illusioni: quel che conta è il prossimo ministro delle finanze tedesco. Sembra scontata la vittoria di Angela Merkel, però non è affatto chiaro con chi farà il governo, se con i socialdemocratici o con i liberali. Non che i primi si siamo dimostrati degli spendaccioni, l’ortodossia fiscale in Germania è del tutto trasversale. Ma se arrivano i liberali, magari alle finanze, la spinta a rilanciare il rigore in tutta Europa potrà diventare ancora più pressante.
Non è all’orizzonte nessuna politica espansiva da parte di Berlino, né alcuna prospettiva di ridurre l’enorme attivo nella bilancia con l’estero. D’altra parte, se ha funzionato così e se ha fatto vincere le elezioni, perché cambiare? Inoltre, ogni illusione di creare un fronte latino anti-austerità è caduta da tempo. La Spagna si sta riprendendo alla grande e la Francia è chiamata a ridurre il disavanzo pubblico per portarlo finalmente sotto il 3 per cento.
Ecco perché Padoan continua a parlare di sentiero stretto, mentre la diligenza è già sotto assedio. Gli incentivi ai giovani dovrebbero pesare per 2 miliardi di euro, quelli per l’industria un miliardo e mezzo, le misure contro la povertà circa un miliardo, ma poi c’è il rinnovo dei contratti pubblici (attorno a 1,2 miliardi), mezzo miliardo andrà alle province (che dovevano essere sciolte), e via di questo passo. Vanno aggiunti almeno 2 miliardi per spese inevitabili (missioni militari all’estero, trasferimenti alle partecipazioni statali e via via spendendo) che si sommano alla ghigliottina fiscale non più rinviabile: cioè l’aumento dell’Iva e delle accise per le clausole di salvaguardia. Se si vuole evitare che tagli la testa alla ripresa, bisogna trovare qualcosa più di 15 miliardi.
La somma provvisoria porta la manovra attorno ai 23 miliardi di euro. Saranno coperti soprattutto in deficit per almeno 9 miliardi. Tre miliardi entreranno automaticamente grazie alla maggiore crescita del prodotto lordo, dalla cosiddetta spending review non verrà più di un miliardo. Naturalmente, c’è sempre la lotta all’evasione che non manca mai a ogni legge finanziaria. Quanto mettere in preventivo? Si fanno stime ragionevoli per 2 miliardi, non molto e in ogni caso è poco più di una scommessa.
Facendo il conto del dare e dell’avere, mancano tra gli 8 e i 10 miliardi. E nella lista non c’è la riduzione dell’Irpef per i ceti medi e del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti. Il presidente della Confindustria Vincenzo Boccia ha chiesto addirittura 10 miliardi. Padoan aveva messo in conto tra i 2 e i 3 miliardi. Comincia la corsa (elettorale) e s’allarga la borsa (fiscale)? Con il debito che ci ritroviamo sulle spalle e le variabili negative che abbiamo descritto, c’è poco da stare allegri.