Il negoziato per attuare la Brexit è in corso. E’ difficile fare previsioni su chi ne uscirà vinto e chi vincitore anche solo sotto il profilo dei conti finanziari. Uno spunto intelligente ed innovativo è stato sollevato da Giandomenico Majone nel saggio The European Union Post Brexit appena uscito sull’European Law Journal (2017). E’ un saggio che chi ha responsabilità politiche nei confronti del processo d’integrazione europea dovrebbe leggere e meditare con attenzione.
Majone, nato nel 1932, è poco noto in Italia (tranne che in un ristretto mondo accademico). Laureatosi in economia, si è trasferito negli Stati Uniti per studiare scienze naturali, matematica e statistica. Con questo bagaglio, difficilmente classificabile nel mondo accademico italiano, la sua carriera si è svolta specialmente negli Usa dove è considerato uno dei maggiori esperti della valutazione della regolazione. Ed è grazie al suo libro sulla regolazione nell’Unione Europea che è tornato, non più in età giovane, sul continente vecchio, chiamato a fine carriera o quasi, all’Istituto Europeo di Fiesole, dove è professore emerito. Negli ultimi anni ha pubblicato numerosi libri importanti sull’integrazione europea quali Europe as the Would-be World Power: The EU at Fifty, Cambridge University Press 2009; Dilemmas of European Integration: The Ambiguities and Pitfalls of Integration by Stealth, Oxford University Press 2005, per non citare che i più noti.
Il suo ultimo lavoro fornisce una prospettiva molto interessante sulla Brexit. Nonostante Majone sia un matematico ed uno statistico, l’analisi non è una valutazione dei costi e dei benefici della Brexit ma una riflessione essenzialmente politologica.
Pone chiaramente sul tavolo il problema di fondo: se dopo la Brexit, l’Unione Europea (Ue) resterà essenzialmente immutata (anche se monca di una sua parte importante) o effettuerà “un adattamento dinamico” alla nuova situazione. Ossia ammetterà “l’urgenza di cambiamenti radicali nel proprio approccio all’integrazione”.
In primo luogo, dovrà riconoscere che non è uno Stato, e tanto meno un Super-Stato. In secondo luogo, dovrà rinunciare all’obiettivo di trattare tutti (o quasi) i settori delle politiche pubbliche. L’aspetto più importante, secondo Majone, è che “un adattamento dinamico” richiede “leadership istituzionale” e ciò non è compatibile con “il principio secondo cui tutti gli Stati membri sono uguali”. Per mutuare Orwell — diciamo noi — chi esprime più leadership è più uguale degli altri.
Majone individua una buona base teorica per una Ue differente e dinamica nella “teoria dei clubs” del Premio Nobel (liberale e liberista) James M. Buchanan. Il principio essenziale di una organizzazione funzionale a livello sovranazionale è che le attività vengano selezionate specificamente ed organizzate separatamente. Cammin facendo, si potrà riaccendere l’interesse di una unione politica nella forma di una confederazione, non di una federazione, tanti e tali (e tanto profonde) sono le differenze tra gli Stati che fanno parte del “club”. Già Tocqueville aveva compreso che le debolezze di una confederazione aumentano in funzione direttamente proporzionale alla differenza tra il loro potere nominale ed il loro potere sostanziale. Oggi — conclude Majone — è essenziale separare l’idea generale dell’integrazione europea con il modo specifico di darle attuazione.
Una quindicina di anni fa, nel saggio Europe simple Europe strong, Frank Vibert della London School of Economics è giunto a conclusioni simili tramite un percorso differente. Non è stato ascoltato. Con le conseguenze che oggi si toccano con mano: un’Europa litigiosa e che poco conta nell’agone mondiale.