“…Sono inoltre previste specifiche disposizioni statutarie indirizzate a preservare nel tempo elementi costitutivi e intrinseci di Pirelli quali la localizzazione in Italia della sede e del centro direzionale del gruppo, così come il controllo del know-how tecnologico (inclusi i marchi Pirelli). Su tali elementi, in particolare, lo Statuto prevede (i) che il know-how tecnologico di Pirelli dovrà rimanere nella titolarità di Pirelli e non potrà essere trasferito a soggetti terzi, salvo quanto previsto nello stesso Statuto e (ii) che la sede operativa e amministrativa di Pirelli dovrà rimanere a Milano”: ecco una parte qualificante di quanto previsto dal patto parasociale sottoscritto nell’azionariato della Pirelli dai nuovi azionisti di controllo, il colosso ChemChina, con il socio Camfin, di proprietà di Marco Tronchetti Provera, con la sua famiglia, che resta amministratore delegato e vicepresidente fino al 2019. 



Vale la pena ricordarlo oggi, quando la Pirelli – disdettando la propria partecipazione al patto di sindacato di Mediobanca – sancisce la propria uscita da quel che resta del famoso o famigerato “salotto buono” di Mediobanca che ha garantito per una quarantina d’anni, e più o meno fino all’uscita di scena dell’ultimo presidente “di sistema”, cioè Cesare Geronzi, gli equilibri di potere del capitalismo italiano delle grandi famiglie. Vale la pena di ricordarlo, perché la mossa di Pirelli – più emblematica che incisiva – si limita a sancire un dato di fatto, che cioè da tempo nessuna istituzione finanziaria sarebbe più in grado (e la Mediobanca di Nagel non ci ha mai neanche provato, eccezion fatta per la goffa e perdente difesa della Rcs dalla scalata del bravo e italianissimo Urbano Cairo) di difendere l’italianità di chicchessia.

Interessante, piuttosto, sottolineare come gestendo le cose con prudenza e determinazione si possa presidiare ciò che alla fin fine più conta della famosa “italianità” di un’azienda, cioè il suo radicamento territoriale nei valori davvero rilevanti, cioè le competenze, il know-how, la sede, le proprietà intellettuali. Le tutele che il patto Pirelli prevede per questi valori possono sì essere superate, ma solo in presenza di un voto assembleare del 90% del totale, cioè una sostanziale unanimità che i cinesi non potranno mai conseguire a meno di non lanciare un’altra Opa ma sul 100 per cento del capitale.

Dunque la sede della Pirelli, operativa e amministrativa, dovrà rimanere a Milano (e non potrà emigrare tanto facilmente all’estero, come ha disinvoltamente fatto la Fiat tra gli incomprensibili plausi di Renzi e dei suoi boys). E per essere sicuri che questi accordi non decadranno con l’uscita di Tronchetti dalla stanza dei bottoni, le loro norme passano dal patto allo Statuto, a sua volta non modificabile senza la maggioranza qualificata del 90 per cento.

Non ci sarà mai una “Pilelli”, dunque, a meno che i cinesi non decideranno di comprarsi proprio tutto. Ma perché mai dovrebbero? Squadra che vince non si cambia. E la vera difesa di queste garanzie statutarie sarà rimessa soltanto al permanere di un’eccellenza tecnologica e manageriale in azienda, un’eccellenza che ha buone radici in una “scuola” professionale di alto livello, quella cui poi il gigante cinese ha desiderato agganciarsi acquistando il controllo del gruppo.