Aria di Francia su Piazza Affari ieri mattina. I riflettori erano infatti puntati sul titolo Fincantieri, in rialzo a metà contrattazioni del 5% circa, dopo i passi avanti che sono stati compiuti con l’incontro, tenutosi nella giornata di lunedì, tra il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, l’omologo francese Bruno Le Maire e il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda. L’impasse, provocata dalla decisione della Francia di Emmanuel Macron di nazionalizzare temporaneamente i cantieri Stx, lo scorso luglio, sembra essersi sbloccata. Soddisfazione è stata espressa dalle controparti, mentre si attendono maggiori dettagli sul modo in cui il nuovo accordo sarà definito. L’idea sarebbe quella di dar vita a un gruppo unico a governance italiana, in cui andrebbero a confluire Fincantieri, Stx France e Naval Group. Il polo sarebbe attivo sia nel ramo civile che in quello militare e, stando a quanto riportava Il Sole 24 Ore, l’Italia avrebbe la guida del ramo civile, mentre Parigi deterrebbe il controllo degli asset militari, in capo a Naval Group. Il tutto mentre oggi Jean-Claude Juncker, numero uno della Commissione Europea, illustrerà – all’interno del discorso sullo Stato dell’Unione al Parlamento europeo – il suo piano per tutelare l’Europa dalle operazioni di takeover estere, il cui obiettivo primario dichiarato sarà frenare soprattutto l’ingordigia della Cina, sempre attivissima sul fronte delle acquisizioni, in attesa del Congresso del Partito Comunista del 18 ottobre prossimo. 



Ma se questa aria di Francia ci riguardava direttamente, occorre fare un paio di appunti. Il primo, sul tema: detenere la governace ma cedere alla Francia il ramo militare, stante una stagione di warfare diretta o indiretta grazie alla lotta al terrorismo, appare un affare tutto per Parigi. Secondo, a livello di dinamiche europee, al netto di quanto ci racconterà oggi Juncker. Andare in edicola a Parigi ieri equivaleva infatti a compiere un salto nel passato, un viaggio nel tempo stile Ritorno al futuro: eravamo sì al 12 settembre 2017, ma l’impressione era quella di trovarsi in pieno maggio del 1968. La prova del fuoco, titolava Le Figaro, Face a la rue (“Di fronte alla strada”) era l’apertura a tutta pagina di Liberation su una foto di profilo di Emmanuel Macron. E ancora La piazza contro Macron, aggiungeva il Nouvel Observateur. Cosa stava succedendo? Un bell’anticipo di autunno caldo. Ma, soprattutto, di relazioni sociali ed equilibri di potere ai tempi del Parlamento blindato e dello stato di emergenza. 



Il presidente francese ieri era infatti alla prova della piazza su uno dei pilastri della sua politica economica: scioperi, manifestazioni e proteste erano indetti in tutto il Paese contro la riforma della legge sul lavoro, voluta fortemente dal governo e osteggiata dalla sinistra e dai sindacati. La Cgt (Confédération Général du Travail) aveva organizzato 200 manifestazioni e 4mila appelli allo sciopero per denunciare un testo che, a detta del segretario generale Philippe Martinez, «consegna tutto il potere ai datori di lavoro». Una mobilitazione in grade stile, come avviene sempre in queste occasioni Oltralpe: cortei si sono infatti mossi a Parigi intorno a mezzogiorno e qualche disagio si era già avvertito in mattinata, soprattutto nel settore dei trasporti, con ritardi nei treni dalle banlieue e l’annullamento di molti voli del vettore low-cost Ryanair. E tanto per rendere ancora più vivido il deja vù con il maggio 1968, diverse associazioni studentesche, sia di liceali che di universitari e i movimenti giovanili di alcuni partiti della sinistra hanno lanciato un appello a condividere la protesta contro quella che viene definita «una regressione sociale storica». 



Insomma, Macron – dopo aver visto crollare a piombo il suo indice di gradimento fra i cittadini francesi – ora deve fare i conti con la piazza, storicamente un avversario da temere – e non poco – in Francia. O forse no. Per la prima volta da anni, infatti, il sindacato si è presentato all’appuntamento della prima grande mobilitazione autunnale diviso, con FO e la Cfdt, le altre due sigle storiche del lavoro, che non hanno accolto l’appello della Cgt, pur criticando anch’esse l’impianto della legge di riforma del lavoro. E anche sul fronte politico, la potente Cgt sembra piuttosto isolata: il leader di France Insoumise e candidato alle presidenziali, Jean-Luc Melenchon, il quale ha definito la nuova legge «un colpo di stato sociale», ha infatti chiamato a un giorno di protesta a Parigi per il 23 settembre, mettendosi in aperta competizione con la leadership del sindacato. «Una iniziativa – scriveva Le Monde – che rende ancora più tesi i rapporti già complicati tra Melenchon e Martinez». 

Insomma, siamo al Renzi-Camusso in salsa d’Oltralpe? Pare proprio di sì, peccato che a Parigi la disputa non sia meramente ideologica o di consenso, ma si basi proprio su ciò che vi dicevo prima: l’effetto Macron come nuovo paradigma dei rapporti socio-economici nel mondo liberato dai populismi, proprio grazie all’approdo all’Eliseo del pupillo di Jacques Attali. «I francesi non vogliono un Paese liberale, ecco cosa deve capire Emmanuel Macron. Questa è la Francia, non l’Inghilterra», ha infatti tuonato nel suo comizio a Marsiglia, Jean-Luc Melenchon, leader della sinistra oltranzista durante la manifestazione contro la riforma del lavoro. Un po’ più di un slogan dovuto alla foga del momento, perché Melenchon, forte del suo risultato elettorale, come appena notato, ha di fatto lanciato la sfida alla forza egemone della sinistra francese degli ultimi anni, la Cgt, stante la frammentazione atomica della componente comunista e il declino sempre più impietoso del Partito socialista. Insomma, più che Renzi-Camusso qui siamo a un riedizione di Prodi-Bertinotti, ma con numeri e situazione sociale ed economica ben diversa. E, attenzione, Melenchon sa di giocare in base a regole imposte dal presidente. 

Dov’era, infatti, ieri Macron? Asserragliato all’Eliseo? Chiuso nel suo studio, atterrito dalla protesta? No, ha assistito alla giornata da lontano, molto lontano. Per l’esattezza dalle isole francesi di St. Martin e St. Bartolomè, flagellate dal passaggio dell’uragano Irma. Il perché è presto detto. Primo, in Parlamento il presidente gode di numeri in grado di trasformare Ceausescu in Enrico Letta, quindi non ha alcun patema d’animo rispetto al percorso istituzionale della legge, qualsiasi cosa accada. Secondo, lo strappo di Melenchon ha una doppia valenza. Prima, politica, di rottura strategica con la Cgt per cercare di recuperare l’egemonia a sinistra del Partito socialista, tentando nel contempo di pescare con il retino qualche transfuga deluso del partito di Hollande. Seconda, più importante, allontanarsi il più possibile da chi ha permesso, in un passato recente, alla piazza di degenerare nelle sue manifestazioni, facendo poco o niente affinché le code dei cortei gestite da studenti, centri sociali ex esponenti dei casseurs delle banlieue si scontrassero con la polizia e mettessero a ferro e fuoco Parigi e le altre grandi città. Attraverso lo stato di emergenza figlio della strage del Bataclan e rinnovato lo scorso luglio dopo l’attentato-farsa sugli Champs Elysèes fino al 1 novembre, Emmanuel Macron ha poteri pressoché senza limiti anche sul Parlamento e qualsiasi atto che possa prefigurarsi come turbativa all’ordine pubblico può portare non solo alla sua repressione, ma anche alla revoca dell’agibilità alle proteste di piazza, addirittura sine die. 

Melenchon, insomma, sposa sì la linea dura contro la nuova legge sul lavoro, ma lo fa smarcandosi totalmente dall’ala movimentista della sinistra, finora egemone poiché orfana di una guida tradizionale e parlamentare. Ecco il nuovo paradigma, portare l’estremo alla lotta nelle istituzioni, per il semplice fatto che le stesse sono completamente blindate grazie al voto bulgaro di una minoranza degli elettori e alla battaglia – vinta – contro lo spauracchio populista di Marine Le Pen. Una lezione anche per l’Italia, in vista dell’autunno caldo? O, forse, in vista delle politiche del 2018 e della loro annunciata e ontologica ingovernabilità post-urne, un qualcosa che prefigura fin d’ora un governo di unità nazionale guidato da un uomo forte e con mandato pressoché illimitato (magari Mario Draghi dopo l’addio alla Bce)? Di più, per l’intera Europa che, prima o poi, sarà costretta a fare i conti economici con la fine del Qe della Bce? 

Ma attenzione, perché la logica dello stato di emergenza porta anche ad altro. Nulla di complottista, visto che stava stampato in prima pagina su Le Monde di ieri: Scacco a Schengen, era il titolo, giustificato dal fatto che, stando a informazioni del quotidiano della sinistra, l’amministrazione del presidente francese starebbe preparando «una estensione massiccia dei controlli di identità». L’esecutivo di Parigi – precisava il giornale – intende ridefinire le «zone frontaliere e introdurre nel diritto comune delle disposizioni che permettono di derogare le regole della libera circolazione Ue». Orchestrata in nome dell’antiterrorismo, la riforma blinda anche l’immigrazione clandestina, sintetizzava Le Monde. E Bruxelles non può dire nulla, perché lo stato di emergenza prevede che ogni legge o disposizione emanata per tutelare la sicurezza dello Stato sia prevalente sulle leggi europee. 

Cosa sa Macron che noi comuni mortali non sappiamo? Perché rinforzare ancora le difese territoriali, visto che a Ventimiglia il dispositivo messo in campo pare aver funzionato a meraviglia? Prima l’Austria, ora la Francia in grande stile. Dopo il voto, magari, la Germania. Cosa ci attende in autunno? Occhio all’evoluzione delle politiche e dei rapporti socio-economici in Francia, sono il barometro del futuro.