Secondo l’Economist, “l’economia italiana sta vivendo un’inattesa forte ripresa”; gli ultimi esempi, secondo il settimanale, sarebbero il calo del tasso di disoccupazione all’11,2% e l’aumento del 4,4% della produzione industriale. È vero, nota sempre l’Economist, che il tasso di crescita prevista per il 2017 è ancora inferiore alla media europea, ma la differenza si sta riducendo, anche se, si ammette, probabilmente l’Italia sta semplicemente beneficiando di una generale ripresa europea. Peccato, aggiunge l’Economist, che la politica italiana sia irresponsabile e non abbia prodotto una legge che dia stabilità al punto che il risultato più probabile sia una grande coalizione o, addirittura, una coalizione di centrodestra con dentro Berlusconi, la Lega nord e alcuni neofascisti: una coalizione che difficilmente produrrà un agenda di riforme liberali.
La premessa di questa breve analisi è decisamente superficiale. Festeggiare con la disoccupazione oltre il 10% e un Pil sotto il 2% è in questa fase senza senso; sia perché a questi ritmi torneremo ai livelli pre-austerity del 2012 (nel 2011 la disoccupazione era all’8%) in cinque anni, sia perché l’Italia, che non sta sulla luna, sale trainata dal resto dell’economia mondiale, ma sempre meno delle altre economie europee.
L’Italia in questi anni ha sempre rispettato i parametri europei sul deficit, ha abrogato le popolari, ha eliminato il contratto a tempo indeterminato, ha alzato di molto l’età pensionabile e ha aperto il suo mercato a imprese europee come nessun altro. C’è molto da fare in particolare per una burocrazia che è rimasta identica, sostanzialmente irresponsabile, e anzi oggi appare come un miraggio per i privati che hanno subito due devastazioni, nel 2008 con il fallimento di Lehman Brothers e nel 2012 con l’austerity. Altri Paesi europei, però, dall’introduzione dell’euro, hanno fatto molto meno dell’Italia in termini di riforme eppure meglio in termini di crescita. Visto che l’euro è uguale per tutti e visto che prima della sua introduzione i tassi di crescita, per esempio tra produzione industriale italiana e tedesca, erano simili c’è qualcosa nell’euro che non funziona per l’Italia. Una convinzione che ormai sta diventando diffusa esattamente come ormai è pacifico che l’austerity imposta a Grecia o Italia sia stata una follia senza senso che viene interpretata all’estero come il frutto di una lotta intestina europea.
La questione dell’euro appare sempre più chiara. Ieri il ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, l’ha espressa con queste parole: “O l’eurozona si trasforma da unione monetaria imperfetta a un vero continente economico oppure potrebbe sparire”. Non è, ovviamente, la frase di un pericoloso populista. La questione è semplice: non si può avere una valuta identica, una sola banca centrale, stesse leggi e stessi dazi commerciali con l’estero per economie così diverse. Questa unione monetaria non produce una diminuzione delle differenze, ma le aumenta. La ragione è semplice: non si può chiedere a una virtuosa impresa italiana di competere con una altrettanto virtuosa impresa tedesca se ha il doppio delle tasse, meno credito e meno aiuto dallo Astato in forma anche di investimenti infrastrutturali. La prima potrebbe sopperire a queste differenze di contesto se avesse dalla sua uno Stato centrale che aggiunge qualcos’altro: per esempio svalutando la valuta o decidendo di fare politiche anticicliche, aumentando il deficit, magari ricorrendo al risparmio. Senza questo l’unico risultato è che l’impresa italiana muore e quella tedesca vive. Un’unione monetaria funziona solo se ci sono meccanismi di redistribuzione interna come succede negli Stati Uniti tra New York e Alabama o come è successo in Italia per cinquanta anni tra Lombardia e Calabria.
Se questo non avviene il meccanismo lavora aumentando le differenze, sempre ammesso che sia neutrale e che invece non sia “partigiano” e accentui i difetti perché gli stati economicamente forti riescono a condizionarlo mentre quelli deboli lo subiscono. Quando il contesto mondiale va bene, come oggi, l’Italia fa un po’ meno degli altri, ma le differenze hanno un’accelerazione netta nelle fasi di crisi, che ci saranno sempre, perché gli stati deboli non hanno alcun strumento anticiclico mentre gli stati forti sì. Più si prolunga il contesto attuale, peggio è per gli italiani e in ultima analisi per tutti gli europei.
Ci sono solo due soluzioni, come dice il ministro delle finanze di Macron, o la rottura dell’euro o una vera unione economica. Nel secondo caso ci sono due questioni. La prima è se il processo è rapido e onesto e cioè se l’Italia viene trattata come la Germania e non entra nell’unione con, per esempio, tutte le banche sfasciate e nessuna impresa. La seconda questione è che un cittadino tedesco deve accettare che il cittadino italiano abbia voce in capitolo sulle sue tasse. Esattamente come per cinquanta anni un cittadino di Lecce poteva decidere sulle tasse di uno di Torino. In pratica l’Europa si dovrebbe comportare come faceva l’Italia in cui la Fiat o le imprese statali aprivano stabilimenti al sud, con i soldi di tutti, e in cui una maestra prendeva lo stesso stipendio in Sicilia o in Veneto.
Non è chiaro quale partito tedesco o francese potrà mai vincere o sopravvivere a una vittoria con queste idee; non è chiaro perché Francia e Germania dovrebbero voler cedere sovranità sostanziale. Prendersela con la politica italiana in questo contesto come fa l’Economist è solo la beffa dopo il danno.