Lo so, il mondo trema per il nuovo test missilistico nordcoreano e per l’attentato artigianale sulla metropolitana di Londra, quindi dovrei occuparmi di questo. Ma, vi chiedo: se il mercato ha totalmente ignorato questi due eventi, non facendo pressoché un plissé al riguardo, perché dovrei farlo io? Perché dovrei preoccuparmi del cotè bellicista e proto-bombarolo di una battaglia enorme che è solo di sopravvivenza del sistema finanziario da un lato e degli Stati dall’altro, inteso come Stato la sua valuta e il ruolo di benchmark che essa riveste nello scenario mondiale? Sapete cosa accadeva, mentre tutte le telecamere di questo mondo erano piazzate sulla fermata della metro di Parsons Green, pochi isolati da dove abitavo quando ero a Londra? Questo: «L’uscita dalla politica espansiva dovrà essere cauta, affinché i mercati non reagiscano in modo troppo nervoso». Direte voi, sai che novità. Beh, la novità c’è se a dirlo è Wolfgang Schaeuble, intervistato dal Passauer Neue Presse. 



Stando al ministro delle Finanze tedesco, infatti, «la politica monetaria straordinaria con tassi bassi e acquisti di titoli è stata necessaria per superare una fase di crisi economica». Aveva bevuto? No, aveva buttato un occhio anche al trend dei Bund, dopo che giovedì, successivamente al dato Usa che aveva confermato il rialzo delle pressioni inflazionistiche nel Paese, i tassi decennali dei titoli di stato tedeschi hanno testato il record in tre settimane e mezzo, a fronte della sell-off che ha colpito il valore dei titoli. Dal minimo degli ultimi due mesi e mezzo della fine della scorsa settimana, i rendimenti tedeschi sono balzati di oltre 13 punti base. E il rialzo continua: alle 12.30 ora italiana, i tassi sui Bund tedeschi balzano di oltre +6% allo 0,44%, a fronte del +0,52% al 2,14% dei tassi sui Btp decennali. Il risultato è che lo spread Btp-Bund a 10 anni scende dello 0,88% a 169,60 punti base. A pesare questa settimana sul trend dei bond dell’Eurozona, in generale, è stata anche la massiccia offerta di debiti sovrani da parte degli Stati, per un valore superiore ai 15 miliardi di euro. E, ovviamente, la scommessa di un imminente tapering del Qe da parte della Bce. 



Vuol dire che c’è qualche rognetta? Soprattutto partendo da un presupposto: se arriva il tapering, partono gli scossoni e il Bund paga pegno. Ma se non parte, entro marzo-aprile sarà finito il collaterale esigibile di carta tedesca, quindi o la Germania emetterà più del previsto o la Bce cambierà la regola mandataria del 33% di acquisto sull’emesso totale. Comunque sia, i rendimenti andranno a piombo per scarsità. Ma c’è qualcuno che non la pensa come Schaeuble e non esattamente l’ultima arrivata. Parlando in occasione della riunione informale dei ministri finanziari della zona euro a Tallinn, Sabine Lautenschlaeger, fra i grandi falchi del board della Bce, non ha usato giri di parole: «È tempo che la Banca centrale europea riduca gli acquisti di bond, perché la crescita dell’economia della zona euro e i bassi tassi di interesse riporteranno l’inflazione al livello previsto dalla Bce, ovvero attorno al 2%». E ancora: «La forte crescita unita alla politica monetaria accomodante ci riporterà a un tasso di inflazione in linea con i nostri obiettivi. Ci sono pochi dubbi su questo. Quindi è tempo di prendere una decisione ora sulla riduzione dei nostri acquisti di bond all’inizio dell’anno». 



E stando a un sondaggio condotto dall’agenzia Reuters tra gli economisti fra l’11 e il 14 settembre la Banca centrale europea annuncerà a ottobre un’estensione di sei mesi del programma di acquisto asset, ma ridurrà il ritmo mensile degli acquisti a 40 miliardi di euro. Solo due dei 52 interpellati ritengono che l’annuncio verrà dato a dicembre, termine ultimo indicato attualmente per il Quantitative easing, che procede al ritmo di 60 miliardi al mese. Il consenso dei 39 economisti che hanno risposto al sondaggio prospetta, inoltre, un’estensione di sei mesi del programma e le stime fornite spaziano dai 3 ai 12 mesi. La media delle stime degli economisti, poi, suggerisce che da gennaio l’importo degli acquisti mensili scenderà dai 60 miliardi attuali a 40 miliardi. 

Stando ai 31 dei 33 economisti che hanno fornito una risposta, il programma sarà completamente archiviato entro la fine del 2018. Tra questi, sei ritengono che possa essere chiuso entro la prima metà dell’anno prossimo, mentre solo due sono convinti che gli acquisti termineranno nel corso del 2019. La maggior parte dei tecnici, a cui è stato chiesto se la scelta di avviare un percorso di chiusura del Quantitative easing sia giusto, ha risposto di sì: una larga maggioranza ritiene, infine, che la Bce probabilmente non toccherà i tassi d’interesse, attualmente al minimo storico, per tutto l’anno prossimo. 

Insomma, l’argomento è uno e solo uno, visto che nessuno in questo momento presta troppa attenzione a una Fed che finge di normalizzare i tassi, ma che è in realtà formalmente congelata, non fosse altro per il fine mandato di febbraio della Yellen e la totale confusione – almeno ufficiale – che regna nella testa di Donald Trump rispetto al suo successore (e quindi al tipo di politica da mettere in campo). Ma c’è di più, perché al diluvio di dichiarazioni da parte di membri dell’Eurotower che oggi difficilmente troveranno spazio si giornali, ieri se ne è unita un’altra, legata a un tema che negli ultimi giorni ha fatto molto discutere: «La Bce è preoccupata della possibilità che le banche, nello scenario post-Brexit, cerchino di sfruttare le debolezze del sistema di regolamentazione per ottenere condizioni meno stringenti senza ridurre i rischi». Lo ha detto Daniéle Nouy, responsabile della vigilanza bancaria della Bce, in un intervento a Helsinki, riferendosi all’eventualità che molte banche con sede a Londra e con attività nell’Ue potrebbero trasferire le filiali in Paesi con un sistema normativo più flessibile, questo senza ricadere più sotto i severi controlli della Banca centrale. 

«I procedimenti arbitrali trans-giurisdizionali sono diventati una questione ancora più importante dal quando il Regno Unito ha deciso di lasciare l’Ue», ha detto Nouy, spiegando che «alcune banche britanniche potrebbero istituire filiali in Paesi terzi non soggetti alla vigilanza della Bce… Non siamo in un film dove un eroe solitario ignora felicemente tutte le regole per salvare il mondo – ha concluso -: qui la questione riguarda la stabilità del settore bancario, la prosperità dell’economia e il benessere della società nel suo complesso». 

Capite ora perché, mentre il presidente sud-coreano, Moon Jae-in, diceva testualmente che «se la Corea del Nord continua con le provocazioni, abbiamo la capacità di distruggerla senza possibilità di ricostruzione», invocando la possibilità di una guerra accidentale, il Ftse Mib stazionava placido su quota 0,06%? Perché serve la copertura hollywoodiana dello scontro nucleare per evitare di discutere delle guerre vere, quella della Bce che rischia di diventare davvero una pietra angolare della politica monetaria globale in anticipazione della nuova crisi all’orizzonte. La stessa guerra della Cina a Bitcoin e alle altre critpovalute, passata ieri dal nuovo divieto totale di trading nel Paese che ha spedito proprio Bitcoin sotto quota 3mila dollari, non è certo per limitare la possibilità di “furto” durante gli attacchi degli hackers nordcoreani, bensì per placare i continui outflows di capitali che hanno trovato una nuova e più sicura via per aggirare i controlli delle autorità di Pechino. È guerra valutaria globale, mai vista di questa intensità. Per questo servono un pazzo in Corea e una busta che brucia sulla metropolitana di Londra.