C’è già chi, come Pierre Moscovici, si è candidato e chi, come Pier Carlo Padoan, sostiene con calore l’idea; ma in realtà nessuno è in grado di sapere che cosa sarà (se ci sarà) il cosiddetto ministro delle finanze europeo. All’Ecofin di Tallin, l’altro ieri, sono emerse divergenze nutrite di sospetti (e questo è scontato), anche perché il dibattito ruota attorno a un simulacro dalle molte facce. Jean-Claude Juncker, Presidente della Commissione europea, ha in mente un super commissario tipo il rappresentante per la politica estera (ruolo ricoperto da Federica Mogherini) che sia anche il capo dell’Eurogruppo, nonché vicepresidente della Commissione. È vero, nel suo discorso sullo stato dell’Unione ha detto che la nuova figura istituzionale deve rispondere al Parlamento europeo, ma è pur sempre inquadrata nella Commissione, dunque dipende da Juncker.
Il Presidente francese Emmanuel Macron vorrebbe un soggetto politico che faccia capo al Consiglio europeo, cioè ai capi di stato e di governo, e che lavori a braccetto con la Commissione, ma sia altro. Anche se i suoi poteri fossero limitati all’area euro, le sue scelte sarebbero tali da influenzare la politica economica e fiscale dell’intera Unione, compresa quella dei paesi che non fanno parte della moneta unica. La Germania tiene soprattutto al trasformare il Meccanismo di stabilità in un Fondo monetario europeo il cui compito sia di riportare sul sentiero della virtù i paesi cicala e quelli in difficoltà. Angela Merkel si è pronunciata a favore anche del ministro delle finanze, senza scegliere tra il modello Juncker o quello francese; ma in ogni caso lo vede come una sorta di cane da guardia dei bilanci pubblici. E l’Italia?
L’idea di Padoan è che questa nuova figura istituzionale (sia che faccia capo alla Commissione, sia che diventi un vero ministro) venga dotata di un bilancio comune per investire in progetti europei (dalle infrastrutture all’indennità di disoccupazione europea) e per bilanciare l’impatto negativo della congiuntura. Il ministro italiano dell’Economia si rende conto che allo stato attuale questo bilancio non sarà dotato di grandi risorse, però aprirebbe la porta a una certa condivisione degli oneri. Restano fuori i debiti pubblici (cioè alla fin fine quello che più interessa la stabilità dell’Italia), tuttavia va considerato un passo avanti nel cammino unitario con un approccio fondamentalmente federalista.
Proprio questo non piace ai governi sovranisti (quelli del nord e dell’est in particolare), ma non è chiaro nemmeno se otterrebbe il sostegno di una Francia che a parole si lancia in ardite fughe in avanti, ma in concreto è alle prese con i propri guai interni (l’ondata di scioperi soprattutto nei trasporti e nel pubblico impiego mettono in pericolo la riforma del mercato del lavoro).
Il confronto è solo agli inizi. Bisogna attendere innanzitutto le elezioni tedesche la prossima domenica e capire con chi farà il governo Angela Merkel, con i socialdemocratici o con i liberali. In ogni caso, la cancelliera ha indicato la strada che seguirà di qui al prossimo anno. I tempi sono già tracciati: arrivare con un progetto concreto alla primavera del 2019 quando ci saranno le elezioni europee e quando scadrà anche Mario Draghi. Perché nel risiko tra ministro, supercommissario, fondo monetario entra anche la Bce la cui poltrona, allo stato attuale, resta la più importante. I tedeschi hanno presentato una loro candidatura, ma bisognerà vedere quali posti si apriranno nella governance europea.
La partita è complicata. Diventa essenziale che l’Italia la giochi bene e fino in fondo, con una propria proposta concreta (non possiamo limitarci a fare le bucce a quelle degli altri) e senza ripetere gli errori commessi a proposito del bail-in, presentato come un balzo in avanti verso una maggiore unità per poi scoprire che l’Italia non era preparata, quindi sarebbe diventata una solenne fregatura.
Certo, gli ultimi scampoli di legislatura non danno a questo governo né la forza, né l’autorevolezza per avanzare una proposta dietro la quale si trovi una ragionevole maggioranza politica interna. Ma ancora una volta la sensazione è di essere colti in contropiede, dunque partiamo in svantaggio e dovremo passare i prossimi mesi a chiosare e, se ci riesce, emendare un dossier preparato da altri. Giochiamo di rimessa, in politica come nel calcio.
Il bandolo della matassa è come sempre in mano alla Germania, non solo per la sua forza economica, ma per il ruolo centrale che Angela Merkel ha conquistato. Berlino appare un’isola di stabilità in mezzo alle perturbazioni politiche, economiche, militari persino. Nel bene e nel male, resta l’ancora per l’intera Unione europea. L’Italia, invece, come al solito non è in grado di stabilire quali sono i suoi interessi nazionali. Si va dagli eurottimisti secondo i quali i nostri interessi di fondo coincidono con quelli dell’Ue, agli euroscettici che vogliono recuperare più potere discrezionale possibile. Nessuno, però, è in grado di indicare in concreto, punto per punto, che fare e con chi stare, nemmeno i velleitari che pensano di stare da soli (l’Italia non lo ha mai fatto dal 1861 in poi, tanto meno dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale).
Così si ripropone il dilemma che dall’Unità in poi ha sempre dilaniato la nostra politica estera: con la Francia o con la Germania? Un dilemma da gregario.