Romano Prodi si dice preoccupato dell’avvio della commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, perché “può fare solo danni”. Non sorprende: con il tono di Riserva della Repubblica – la Prima e la Seconda – l’ex premier ha buon gioco nel punzecchiare e contrastare il successore Matteo Renzi, che freme invece dalla voglia di usare la commissione in articulo mortis pre-elettorale per espugnare la Banca d’Italia di Ignazio Visco. Per un politico della generazione di Prodi, certamente, Via Nazionale non è mai stata né avrebbe mai potuto essere essere oggetto di contesa come una qualsiasi altra nomina pubblica. La banca centrale, anzitutto è stata a lungo un’istituzione capace di tutelarsi da sè, difficilmente condizionabile dalla politica (semmai poteva accadere ed è accaduto il contrario). E poi è sempre stata una tecnostruttura insostituibile: un pezzo di governo in fondo utile a qualsiasi governo (lo stesso Silvio Berlusconi, alter di Prodi nella Seconda Repubblica, non fiatò di fronte alla proposta di Carlo Azeglio Ciampi di sostituire Antonio Fazio con Mario Draghi nel 2005).
D’altro canto, la cultura politico-economica profonda dell’apparato-Bankitalia è sempre stata più “equivicina” al centrosinistra che al centrodestra italiano: e Prodi ha presente anche questo quando – più o meno sottotraccia – chiede a Renzi conto politico dei rumor sul sostegno Pd di un candidato-governatore come l’economista Marco Fortis. Perché rottamare brutalmente un think tank e un megafono forse non più blasonato come in passato, ma comunque raramente disallineato rispetto alle tradizionali impostazioni di politica economica del centro-sinistra? Solo perché la crisi bancaria ha allungato ombre pesanti sul Pd renziano e urge un’exit strategy mediatica?
La crisi bancaria e le difficoltà oggettive emerse nella vigilanza sono peraltro fatti (anche se fra di essi non sono mancati passi discutibili da parte delle autorità monetarie politiche). È questa d’altronde la ratio con la quale la commissione parlamentare d’inchiesta è nata: la volontà di far luce su almeno un decennio di storia bancaria nazionale, inevitabilmente senza dimenticare quanto accaduto nel decennio precedente. Una “vera” commissione parlamentare d’inchiesta dovrebbe ricostruire l’intero riassetto bancario nazionale dalla riforma Amato-Carli in poi: le privatizzazioni, le ondate di aggregazioni, i profili di internazionalizzazione, le interazioni del sistema finanziario nazionale con la globalizzazione. È difficile che questo avvenga se si voterà domenica 4 marzo, ma non è improbabile che la gestione mediatica di una commissione per molti versi fake produca “danni” anche al di là del possibile avvicendamento del governatore.
È per esempio largamente preannunciata la convocazione di Federico Ghizzoni, ex Ceo di UniCredit, chiamato in causa dall’ultimo libro di Ferruccio De Bortoli come destinatario di pressioni per il salvataggio di Banca Etruria da parte dell’allora ministro per le Riforme Maria Elena Boschi. Oppure: non è affatto escluso che venga subito gettato nella fornace dei lavori della commissione il caso Ubi, l’inchiesta della Procura di Bergamo sul ruolo del presidente emerito di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli. Per non parlare dei dissesti d Mps e delle due Popolari venete: al termine di parabole durate decenni all’ombra della politica.
Se Renzi si sente minacciato (soprattutto Etruria ma alla fine su ogni fronte di crisi dal 2015 in poi) Prodi non lo sembra di meno: dopo essere stato a lungo un dominus del sistema creditizio. Da ex presidente della Commissione Ue, certamente, non ha torto a rammentare che in quest’Europa nessun Paese ha finora lavato in pubblico i propri panni bancari imbrattati dalla Grande Crisi. Vedremo anche su questo terreno quale porzione del centro-sinistra prevarrà, come e con quali esiti.