Non spaventatevi se quanto state per leggere potrebbe apparirvi sulle prime un guazzabuglio, uno zibaldone di pensieri e notizie apparentemente slegate tra loro: seguite, come vi dico sempre, la logica del gioco della Settimana enigmistica, quello che vi invita a unire i puntini. Vediamo che immagine ne esce. Dunque, partiamo da un qualcosa di apparentemente slegato da ogni logica economica: non vi pare strana questa messe di fango sull’Arma dei Carabinieri, tutta insieme? Prima il caso dello stupro di Firenze, sparito ovviamente dalle cronache non appena sono cominciate a palesarsi le prime incongruenze rispetto al quadro ufficiale (vedi, ad esempio, video che appaiono e spariscono), poi gli sviluppi senza precedenti del caso Consip, tramutatosi da fatto di cronaca giudiziario-corruttiva nei prodromi di quello che appare, se non un colpo di Stato in fieri, certamente in un attacco di settori delle istituzioni contro il fu governo Renzi. Al centro, ancora l’Arma. La quale, di suo, nell’inchiesta Consip era già presente con il suo più alto rappresentante, il comandante generale, Tullio Del Sette. Il Pd, dopo aver bollato di fantapolitica i richiami di Silvio Berlusconi all’uso strumentale e politico di parte della magistratura, ora scopre il “complotto” e lo fa con i suoi massimi esponenti, da Delrio allo stesso Gentiloni.
Insomma, l’Arma è nel mirino e Matteo Renzi una vittima. Un bell’aiuto politico in vista di quel Vietnam senza esclusione di colpi che sarà la campagna elettorale: addirittura “Ultimo”, l’uomo che catturò Totò Riina e poi cadde in disgrazia una prima volta, dipinto come un potenziale golpista. Non ci si può più fidare di nessuno, nemmeno dell’Arma che storicamente è uno dei baluardi di fiducia dei cittadini e di tenuta democratica del Paese. Già, la tenuta democratica, la stessa per la quale nutriva timori il ministro Minniti: sicuri che si riferisse davvero e solo alla questione migranti e alla rimostranze dei sindaci Pd sui ricollocamenti? Messaggio in codice? Ma lasciamo stare il tintinnar di sciabole di moscovita memoria e veniamo all’opposizione: tralasciando l’attacco alla Lega tramite congelamento dei conti e alla freddezza di Silvio Berlusconi verso l’alleato e i suoi guai (normale contrapposizione in vista degli equilibri di coalizione), da sabato abbiamo l’ufficialità della candidatura di Luigi Di Maio a premier del Movimento 5 Stelle, status che gli garantisce – in caso di via libera dal Congresso del prossimo weekend – anche la guida del partito, come di fatto imposto dalla legge elettorale vigente.
Grillo addio? Se così fosse, possiamo dire con certezza una cosa: l’operazione Mani Pulite 2.0 è finita, i Cinque Stelle sono destinati a sparire come una meteora. Il tutto, però, dopo aver terremotato la politica italiana, indebolendone molti cardini e svelandone molte criticità. Senza Grillo e la struttura della Casaleggio Associati, Di Maio e soci non avrebbero conquistato nemmeno un posto in Consiglio di zona, lo sappiamo tutti. L’esperienza Raggi, poi, ci insegna che spostati dal ruolo di guastatori a quello di amministratori, la loro pochezza emerge come olio nell’acqua. Grillo può anche andarsene adesso, la missione è comunque compiuta: l’enorme inganno della legalità che travolge il marcio al potere è passato talmente bene, grazie proprio al carisma del comico-guru genovese, che comunque vada, si parte da un bagaglio di voti enorme, circa il 30% a livello nazionale. Per quanto incapaci, ci vorrà un po’ di tempo per dilapidarlo del tutto: tempo necessario e sufficiente a destabilizzare ancora un po’ la scena politica italiana, la stessa che oltretutto ora rincorre anche i fantasmi di strani golpe.
Per qualcuno fuori dai nostri confini, una situazione ideale, esattamente nella logica di Mao e della confusione sotto il cielo. E in quale contesto internazionale sta prendendo piede questo caos politico in Italia? Partiamo da un presupposto: il nostro Paese, da almeno tre mesi, non ha più una politica estera. La Farnesina, di fatto, è una dependance di Palazzo dei Normanni, si pensa unicamente alle elezioni siciliane di novembre. L’interim è stato finora gestito dal Viminale, ma, anche in questo caso, pro forma: Marco Minniti viaggia sì come un pazzo, ma ha un’unica priorità in agenda, il rapporto con la Libia e i suoi alleati più diretti in tema migranti. Punto. E, caso strano, ieri sono ripartiti gli sbarchi: quindici interventi di salvataggio nel Mediterraneo e 500 persone nei nostri porti. Poca roba, ma è un segnale: casualmente nello stesso weekend in cui Washington formalizzava lo stop agli armamenti verso l’alleato storico egiziano, a sua volta grande sponsor del ras libico, generale Haftar, a causa dei rapporti esteri troppo spericolati del Cairo (vedi la Russia e l’espansione iraniana in Siria).
Bene, mentre noi ci preoccupiamo per un bidone che brucia su un convoglio della metropolitana di Londra e il Commissario anti-terrorismo Ue, dalle colonne di Repubblica, spinge sempre di più per un’unione dell’intelligence, dal 13 settembre scorso la Polonia è diventata una dependance di Fort Bragg. Quel giorno, infatti, al porto di Gdansk sono giunti un migliaio abbondante di mezzi da guerra dell’esercito Usa, fra cui carrarmati Abrams, veicoli da combattimento Bradley, sistemi di artiglieria di ultima generazione Paladin e altro equipaggiamento, il tutto nell’ambito dell’operazione Nato denominata Operation Atlantic Resolve. I mezzi saranno dislocati nelle aree occidentali di Boleslawiec, Zagan, Torun, Swietoszow e Skwierzyna e saranno la spina dorsale delle manovre denominate Dragon 17 che si terranno fra il 25 e il 19 settembre prossimi, di fatto la risposta Nato a Zapad 17 in atto in questi giorni proprio al confine polacco, dove operano 17mila soldati fra russi e bielorussi. Insomma, un war-game in piena regola per simulare le difese preventive a un’invasione russa della Polonia o del Baltico: peccato che il nostro ministero degli Esteri funzioni unicamente in direzione Libia e sub judice del Viminale e che quello della Difesa sia troppo occupato a difendere l’Arma da accuse di stupro o tentato golpe per via para-giudiziaria.
E sapete cos’altro sta succedendo, sul piano internazionale e con strettissimi legami in ambito di equilibri europei? Venerdì scorso è stato reso noto un accordo di natura finanziaria sottoscritto da Germania e Iran, il quale «avrà impatti positivi sull’industria siderurgica di Teheran». Lo ha dichiarato Mahdi Karbasian, ministro dell’Industria, delle Miniere e del Commercio iraniano, come riportato dall’agenzia Mehr News. Parlando con i giornalisti, Karbasian ha descritto due operazioni già finalizzate: la prima riguarda lo sviluppo di Hormozgan Steel Company e la seconda quello di Mobarake Steel Company. L’agenzia afferma che nelle scorse ore, proprio quest’ultima società ha sottoscritto un accordo con un investitore tedesco, ma il ministro non ha voluto esporre ulteriori dettagli sull’operazione, ivi compreso il valore economico del contratto. Karbasian ha affermato che ulteriori informazioni verranno esposte solo dopo la firma definitiva dell’accordo: il ministro, però, ha aggiunto che gli investimenti europei nell’acciaio iraniano non sarebbero terminati.
E cos’altro bolle in pentola? «Soggetti italiani starebbero infatti considerando di condurre azioni simili». E chi starebbe lavorando a queste mosse, ontologicamente invise a Washington? Qualcuno che forse ha fatto il passo più lungo della gamba e che andava ricondotto a più miti consigli? Di più, sempre venerdì USnews riportava la decisione del colosso industriale tedesco Siemens di aprire un centro di ricerca robotica in Cina. La Germania sta, nemmeno troppo lentamente, affrancandosi dalla partnership con gli Stati Uniti, aprendo sempre di più a mercati “canaglia”, ma estremamente interessanti come Iran, Cina e Russia? E l’Italia stava forse cercando di accodarsi, purtroppo in ordine sparso a livello di governance politica estera?
Viene da chiederselo quando, come sabato scorso, un giornale notoriamente filo-governativo come Repubblica sparava il seguente titolo: L’intrigo Ue-Usa-Russia per il raddoppio del gasdotto sotto il Baltico. Il tema, ovviamente, era il progetto Nord Stream 2 che aumenterebbe la dipendenza europea dal metano russo. Il progetto è sotto il tiro incrociato di possibili sanzioni americane e di una diffusa opposizione in Europa, dove una bozza di documento della Commissione, in pratica, lo affossa. Ma Nord Stream 2 ha amici potenti a Berlino, a Vienna, a Parigi, a Londra e, naturalmente, a Mosca. In gioco c’è il futuro dell’approvvigionamento energetico dell’Europa, tanto che Engie, ex Gaz de France, sta premendo pesantemente sull’Eliseo e Shell su Dowing Street: e l’Eni? Deve, come l’Arma, difendersi dalle accuse delle anime belle di essere il motivo per cui Minniti ha deciso di svendere i diritti umani alla lotta contro gli scafisti, appaltando alla Libia il blocco dei flussi attraverso i centri di accoglienza-lager. La Farnesina? Non pervenuta. Il Viminale? Non è sua competenza.
Resta il povero Calenda, il quale però, in una situazione simile, cosa pensate che possa fare da solo, per quanto bravissimo? Casualmente, è il Baltico al centro dell’intrigo su Nord Stream 2. Casualmente, è il Baltico al centro della militarizzazione da Terza guerra mondiale di questi giorni. L’Italia? Pensa ai golpe, ai fatti di Firenze e a Di Maio. Bene, avete unite i puntini. Ora riflettete. E fatelo davvero, stavolta, perché – come ha ammesso Di Pietro recentemente, parlando dell’apparato destruens di Mani Pulite – l’abbaglio legalitario e forcaiolo del 1992 lo stiamo pagando ancora adesso. Ora siamo al 2.0, ma la posta è molto più alta.