Secondo l’ex governatore della Bce Jean-Claude Trichet i problemi della Banca centrale europea arrivano dagli Stati Uniti. In particolare “il problema sarebbe più il dollaro troppo debole rispetto alle altre valute che l’euro troppo forte rispetto alle altre valute”; è il dollaro debole secondo l’ex governatore a mettere in difficoltà la Bce. Il problema, in estrema sintesi, è questo: oggi la Bce dovrebbe iniziare, o forse aver già iniziato, il restringimento delle politiche espansive di immissione della liquidità ma non può farlo, o è obbligata a farlo in modo molto meno convinto dal rafforzamento dell’euro. Dodici mesi fa era opinione comune sui mercati che gli Stati Uniti avrebbero cominciato ad alzare i tassi senza accelerazioni brusche ma in modo costante e prolungato. Da diversi mesi invece le aspettative del mercato sui rialzi dei tassi americani si sono dovute adeguare a una Fed molto meno convinta di quanto si attendesse anche solo all’inizio dell’anno. Il risultato è stato un cambio euro-dollaro passato da 1,05 a 1,19 in sei mesi con una perdita per le esportazioni europee in america di quasi il 15%. Se in questa fase la Bce iniziasse una stretta delle politiche espansive probabilmente il cambio sfonderebbe 1,2 facendo salire ulteriormente il conto. 



La Bce si trova quindi in una posizione quasi impossibile. Deve accontentare il sistema finanziario tedesco, che vorrebbe tassi più alti, e l’opinione pubblica tedesca che vorrebbe più austerity per gli stati del sud, ma da sei mesi a questa parte osserva preoccupata il rafforzamento dell’euro e i suoi effetti su un sistema economico, quello imposto dalla Germania a tutta l’Europa, basato sulle esportazioni senza domanda interna e senza investimenti pubblici. Poi ci sarebbe la questione degli effetti della fine delle politiche monetarie espansive su Paesi come l’Italia, anche se questo problema è secondario rispetto agli altri. Bisognerebbe chiedersi perché gli Stati Uniti hanno deciso di mettere in panchina il piano di rialzo dei tassi della Fed.



La questione si può intuire con l’elezione di Trump. Un tale esito — “populista” — non sarebbe spiegabile dopo otto anni di presidenza Obama se l’economia americana non fosse più fragile di quello che dicono le statistiche; fragile perché i posti di lavoro persi non sono mai stati recuperati del tutto e perché molti sono stati sostituiti con lavori precari e mal pagati, fragile perché il sistema finanziario ha punti di debolezza sia dal lato dei debiti delle famiglie e dei consumatori sia per una bolla il cui scoppio avrebbe effetti preoccupanti su un sistema economico non perfettamente in salute. Fragile perché da decenni si verifica un’emorragia di occupazione verso i Paesi emergenti e verso l’Europa con la Germania che fa leva su un tasso di cambio molto più debole di quello che avrebbe senza l’euro.



Gli Stati Uniti poche settimane dopo l’inizio della crisi hanno dimostrato di voler privilegiare il recupero dell’economia reale anche a costo di far esplodere il debito statale, come infatti è accaduto, e anche a costo di alimentare bolle finanziarie, come puntualmente avvenuto. L’Europa invece indugiava a far entrare in campo la sua banca centrale e anzi aspettava, per dare la possibilità a Germania, in primis, e Francia di tirare una mazzata ai concorrenti infliggendo all’Italia un’austerity che dall’altra parte dell’oceano passava per surreale. 

L’Europa oggi si lamenta perché gli Stati Uniti continuano a privilegiare la loro economia reale, ma le andava benissimo quando con l’euro basso l’austera Europa poteva esportare e avvantaggiarsi di un consumatore americano che non aveva mai neanche dovuto leggere la parola austerity. Non si possono scaricare sugli Stati Uniti i problemi di “governance” europea con economie a velocità diversissime, Stati che usano le istituzioni europee di tutti, euro in prima battuta, per i propri obiettivi nazionali e le guerre economiche e geopolitiche tra Stati europei. Se gli Stati Uniti vogliono tassi e dollaro basso per far ripartire la loro economia reale, magari con un piano infrastrutturale o un mega incentivo fiscale, l’unica conclusione per l’Europa sarebbe un esame di coscienza.