Chi ha ascoltato i discorsi pronunciati all’Onu da Macron, Trump e Gentiloni in questi giorni ha avuto ben delineata dinanzi a sé la situazione internazionale. Situazione di grande incertezza e di scomposizione delle forze in campo. Il dato saliente è il declino dell’egemonismo Usa dopo le illusioni unipolariste di Obama che ha lasciato dietro di sé un cumulo di macerie. Il disegno, come fu del resto ben esposto in una celeberrima intervista su The Atlantic, era lineare: gli Usa potevano esercitare un dominio neo-imperiale fondato su una sorta di devoluzione vassallatica alle medie potenze regionali, escludendo dal gioco tanto la Russia quanto la Cina, e fondando una nuova alleanza con potenze emergenti come l’Iran. 



Di qui l’accordo sul nucleare cui associare alleati europei come la Germania e la Francia che avrebbero in tal modo riacquistato una leadership regionale negoziata volta a volta. Sfuggiva a Obama ciò che non sfugge a Trump: gli Usa vedono da tempo declinare la loro egemonia che tracima in una solitudine crescente, a cui non si può rispondere se non rivendicando orgogliosamente un ruolo di supremazia negoziata, scegliendo quale sia oggi il nemico principale: la Cina. Esplicito il riferimento nel discorso all’Onu alla necessità di porre un freno alla libido cinese nel mare del Sud e nell’heartland, pronti a dispiegare la necessaria forza nei confronti della Corea del Nord che altro non è che una potenza vassallatica cinese. La scomposizione inizia di qui: Cina e Usa vogliono l’egemonia, ma attorno a esse agiscono medie potenze stand alone, ossia che perseguono fini autonomi e non di tipo feudale come invece Usa e Cina vorrebbero.



Di qui, dunque, la scomposizione dell’ordine mondiale: nessuna egemonia imperiale riesce a stabilizzarsi né di grande, né di medio raggio. La Francia fa eccezione, come dimostra l’ascesa pilotata di Macron in accordo con la cuspide del potere cinese. Macron ha ben espresso all’Onu una visione imperiale ponendo al centro il dominio sull’Africa e l’autonomia dagli Usa. Garante di ciò non può non essere l’accordo di spartizione con la Cina del continente africano, come ha reso evidente la “guerra mondiale africana congolese dal 1994 al 1997”, come ci ha magistralmente dimostrato Gerard Prunier nei suoi lavori.



Trump rivendica non un neo-isolazionismo o un neo-unipolarismo, ma un neo-egemonismo Usa che per esercitarsi dopo il cambiamento delle politiche turche, anch’esse in versione stand alone, ha assoluto bisogno dell’orso russo come alleato strategico. Per esserlo, l’orso dev’essere domato e di qui la dura polemica sull’Ucraina e un confronto tattico indispensabile. Oggi occorre guardare a un mondo che si avvia verso la possibilità di un confronto nucleare possibile e probabile anche per le stesse trasformazioni tecnologiche, che consentono armi nucleari di media potenza e di seconda risposta.

Gentiloni in questo scenario doveva rivendicare orgogliosamente il ruolo dell’Italia di alleata storica degli Usa. Poteva e doveva farlo ora, liberatasi la nostra politica estera da un mortale abbraccio con la politica obamiana che ha favorito la minacciosa offensiva franco-britannica nei nostri confronti in Egitto e in Libia. Tanto più oggi che grazie a Dio le politiche migratorie sono state così decisamente corrette. È giunto il tempo delle scelte. Non possiamo fare una politica stand alone e neppure possiamo ridurci a un vassallaggio franco-tedesco senza neppure negoziarlo.

Questo Gentiloni doveva dire e non ha detto. Ma il gioco è appena agli inizi e la speranza, diceva Péguy, è una virtù bambina: prendiamola per mano, camminiamo con lei.