È come quando ci si frattura una gamba e, dopo un mese, ci si toglie l’ingessatura: funzionerà tutto? La domanda si applica alla solidità della ripresa economica mondiale di fronte all’imminente “inizio della fine” del sostegno monetario che la Federal Reserve (Fed), la Banca centrale americana, ha dato all’economia statunitense, ovvero a quella di tutto il mondo, dal 2009 a oggi.



La Fed ha annunciato l’altro ieri che inizierà a invertire la rotta e a ridurre il “Quantitative easing”, ovvero l’acquisto di titoli pubblici sul mercato, la trasfusione di sangue finanziaria avviata per contrastare la crisi. I tassi d’interesse sono stati, in questi anni, tenuti rasoterra dalla banca centrale americana che dopo pochi mesi – appena nominato Mario Draghi al vertice – è stata imitata dalla Banca centrale europea. Drenare titoli di Stato dal mercato ha comportato il mantenimento su livelli molto bassi dei tassi da offrire con le nuove emissioni; e l’acquisto di titoli ha impedito che le periodiche ondate di panico sul futuro incerto dell’economia che si sono vissute dal 2009 in poi colpissero il valore dei cambi mandando a gambe all’aria i titoli di Stato dei Paesi più instabili, come l’Italia, e in definitiva il valore dell’euro rispetto alle altre valute. L’andamento dei tassi su livelli così bassi ha facilitato le imprese nel ricorso al debito, ma ha anche avuto l’effetto di deprimere una delle voci classiche di guadagno delle banche, che pure nel frattempo vivevano la crisi dei crediti in sofferenza e quindi avrebbero avuto più che mai bisogno di quei guadagni…



La Fed ha quindi immesso liquidità virtuale sul mercato, sperando in questo modo – e ancor più lo sperava la Bce – di mantenere il tasso d’inflazione nei paraggi di quel 2% che si considera ottimale: ma questo secondo obiettivo non è stato conseguito appieno, il che per Draghi rappresenta un cruccio e finora anche un motivo per proseguire con gli stimoli. Ora la Fed ha detto stop. Ritiene che l’economia si ripartita con soddisfacente vigore. Comprerà sempre meno titoli pubblici. Ritoccherà i tassi lievemente al rialzo entro l’anno. 

Sul mercato americano non tutti se l’aspettavano. Infatti, il valore di cambio del dollaro rispetto alle altre valute è salito di quasi l’1% poiché i tassi di interesse più elevati in arrivo rendono il “biglietto verde” più appetibile; le azioni delle banche sono aumentate di valore in Borsa, perché si può supporre che gli istituti ritroveranno una fonte di guadagni. 



Ora tocca all’Europa. La Banca d’Inghilterra ha già annunciato che probabilmente rialzerà i suoi tassi sulla sterlina. E la Bce ha annunciato che a sua volta inizierà presto a ridimensionare il proprio programma di riduzione quantitativa. Dunque la cura ricostituente dell’economia mondiale sta finendo. La grande ammalata dovrà farcela da sola. E sembra guarita davvero. 

Tre le incognite: la bolla dei derivati finanziari, che negli ultimi otto anni non è stata sgonfiata, anzi; la bolla dei titoli tecnologici è alle stelle, e le prospettive di successo di alcune (poche) aziende tecnologiche non giustificano i prezzi folli raggiunti in genere dalla categoria; e c’è la terribile incognita geopolitica della crisi coreana, la prima che proietta sul mondo intero un rischio di morte che consideravamo archiviato dalla crisi di Cuba in qua.