Si tratta di pochi decimali, più un make up statistico che non una novità sostanziale. Ma fa senz’altro notizia la mini-riduzione del rapporto debito pubblico/Pil, pari a 0,1-0,2 punti percentuali, che dovrebbe emergere dalla nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza. Nulla che possa far gridare al miracolo, perché l’Italia, con l’eccezione del Giappone, resterà di gran lunga il Paese con il debito pubblico più elevato (132,6% del Pil). Ma c’è il segnale tangibile di una correzione di tendenza: dopo essere aumentato di oltre 32 punti percentuali tra il 2007 e il 2014, l’indicatore negli ultimi due anni si è sostanzialmente stabilizzato, risultato da non sottovalutare in tempi di inflazione calanti. Oggi, grazie alla crescita del Prodotto interno lordo all’1,5%, si avvia la discesa. 



Una volta tanto, insomma, l’approvazione del Def coincide con una nota di cauto ottimismo, giustificata anche dalla “mano leggera” di Bruxelles che ha consentito di far slittare l’appuntamento con la maxi correzione (e il pareggio di bilancio) al 2019. Di qui una manovra morbida, 5 miliardi, ovvero lo 0,3% del Pil invece dei 13,5 miliardi paventati ad aprile.



Questi numeri hanno immediatamente suscitato la preoccupazione dei “falchi” di Berlino: le cicale italiane, è il ragionamento, sono già pronte a mettersi all’opera per smantellare quanto fatto in questi anni grazie alla Bce. Ma, con accenti diversi, una preoccupazione del genere si respira anche in via Nazionale. “Il dibattito in Italia – ha evidenziato il governatore Vincenzo Visco – si concentra sui vincoli posti alla politica di bilancio dalle regole europee ma, in realtà, i vincoli più stringenti provengono dall’alto livello del debito pubblico in rapporto a un prodotto che stenta a crescere a un ritmo soddisfacente”. Perciò, “la forte esposizione alla volatilità dei mercati e il freno alla crescita che ne derivano – ha concluso Visco – non ci consentono di posticipare ulteriormente la riduzione del debito”.



Insomma, non è il caso di abbassare la guardia, tentazione più che comprensibile alla vigilia di una stagione elettorale che si annuncia tempestosa. Buon senso vuole che le risorse disponibili vengano concentrate sulla ripresa del settore manifatturiero, al servizio della domanda internazionale che continua a premiare i nostri prodotti, come dimostra la bilancia commerciale. È uno sforzo necessario perché il Bel Paese, reduce dalla crisi economica più violenta della sua storia in tempo di pace, è ancora sott’acqua. Secondo l’indice Eurostat della produzione industriale, a luglio l’Italia era ancora indietro rispetto ai livelli dell’anno 2000 (97,8 contro 100), rispetto a Germania (114,8) e Francia (104,4), ma anche all’Irlanda (157), che pure ha affrontato una durissima crisi finanziaria. 

L’Italia ha così perso diverse posizioni nella classifica delle potenze manifatturiere: era quinta nel 2005, dietro Usa, Giappone, Cina e Germania, è stata sorpassata da Corea del Sud e India e insidiata dal Regno Unito. Non sarà facile ridurre il gap in un momento di aspra concorrenza in cui tutti i competitors hanno avviato robusti piani per convertire le proprie strutture alla nuova realtà dell’economia digitale. Ma ci dobbiamo provare. Fin da subito, prima che nell’economia globale si faccia sentire l’aumento del costo del denaro. La congiuntura, infatti, per ora è propizia come conferma l’ottimo stato di salute della borsa italiana, la più brillante del 2017. 

Da dove trae origine questo boom? Possiamo individuare tre fattori. Innanzitutto i buoni dati economici che hanno spinto il tasso annuale di crescita all’1,5%, il più alto degli ultimi sei anni. Un trend che dovrebbe continuare nei prossimi trimestri, anche se a ritmi inferiori vista la forza dell’euro. Urge al proposito un rilancio degli investimenti fissi lordi, una voce del Pil che non si è mai ripresa dall’inizio della crisi, potrebbe rappresentare un ulteriore motore di crescita, ma è difficilmente ipotizzabile in un contesto di incertezza politica.

Altrettanto importanti sono stati gli interventi nelle banche in difficoltà che con cui si è rimosso un grave rischio sistemico. Ma, come ha sottolineato Mario Draghi, siamo ancora a metà del guado per quanto riguardo la mole dei non performing loans che ancora incombono sulle sorti del sistema. Decisiva, infine, sarà la risposta del mercato al prossimo rientro in Piazza Affari di Montepaschi.  

Infine, la politica. Nel corso dell’estate non si sono registrate grandi variazioni nei sondaggi sulla base dei quali, con le attuali regole, difficilmente sarebbe realizzabile una duratura coalizione di governo. Incombe ancora lo spettro dell’ingovernabilità che riduce l’appeal del Bel Paese, ma tra gli operatori internazionali c’è meno paura perché si sono abbassati notevolmente i toni nei confronti dell’euro sia nel Movimento 5 Stelle che nel centrodestra, dove sembra rientrata l’idea un po’ bislacca della doppia moneta. Grazie alla crescita ritrovata l’Europa oggi è più popolare. Non buttiamo via questa preziosa novità. Anche se il sentiero è stretto.