TERZA GUERRA MONDIALE E FINANZA. Ormai siamo veramente al delirio, siamo in presenza di due leader mondiali che si comportano come due ubriachi al bar che litigano e cercano la rissa, perché obnubilati dai fumi dell’alcool. Kim Jong-un ha alzato il tiro: non solo ha definito Donald Trump «squilibrato, bandito e vecchio rimbambito» e promesso che «pagherà caro il suo discorso all’Onu», ma anche minacciato un esperimento nucleare nel Pacifico, testando una bomba H. Siamo in pieno dottor Stranamore 2.0, tanto più che a stretto giro di posta il presidente Usa ha dichiarato che «Kim-Jong-un presto sarà messo alla prova come mai prima» e che, soprattutto, «è chiaramente pazzo». C’è davvero da temere o siamo soltanto di fronte alla prosecuzione del gioco delle parti che abbiamo visto finora, per mesi mesi?
Io propendo per la seconda ipotesi. Per un semplice motivo: l’obiettivo Usa è un altro e in queste ore stanno accadendo cose che dovrebbero attirare l’attenzione molto più di queste sparate senza senso. Partiamo da una notizia che ha avuto poca eco sui media. Ieri, infatti, la pagliacciata Russiagate si è arricchita di un nuovo capitolo: la pubblicità politica comprata su Facebook da entità riconducibili alla Russia nel corso dell’estate 2016 per avvelenare le elezioni e direzionarle a favore di Trump. Non solo gli hacker, quindi ma anche il social media più ubiquo del pianeta, nel 2016 avrebbe lavorato per i russi durante la campagna presidenziale americana. Lo ha ammesso il patron, Mark Zuckerberg, con un annuncio clamoroso fatto giovedì sera, durante il quale ha accettato di cooperare con le autorità per fare luce sull’accaduto. «Mentre ero in congedo paternità ho speso tanto tempo con le nostre squadre a discutere l’interferenza russa nelle elezioni…», cominciava così il preambolo alla resa di Zuckerberg alle pressioni della giustizia e del Congresso rispetto alla “pubblicità politica” che venne comprata dalla Russia sul social media. E ancora: «Crediamo sia d’importanza vitale che le autorità di governo abbiano tutte le informazioni necessarie per far sapere ciò che accadde durante l’elezione del 2016».
Dopo essersi rifiutata a lungo di compiere questa operazione-trasparenza, Facebook fornirà quindi i dettagli sia alle Commissioni parlamentari che al super-procuratore speciale, Robert Mueller, cioè tutti coloro che indagano sul Russiagate. Insomma, la nuova vulgata – dopo averne provate un centinaio, collezionando figure barbine una dopo l’altra – è che Facebook fosse diventato uno dei cavalli di Troia usati dai russi per interferire nella campagna elettorale, sempre a senso unico: in appoggio a Donald Trump e per ostacolare Hillary Clinton. Bene, sapete quanto avrebbe speso la Russia per sabotare – riuscendoci, stando alla versione Usa – le presidenziali dello scorso novembre? Ben 50mila dollari! Diciamo che la sicurezza politico-informatica della presunta nazione più potente al mondo viene via con poco!
Ora, non ho voglia di spendere tempo (vostro) e parole (mie) al riguardo, basta questo grafico: le spese russe per pubblicità politica su Facebook sono state talmente alte da non rientrare nemmeno nel range minimo di misurazione. Quelle della Clinton, come vedete, un po’ più alte. L’ennesima pagliacciata. Cui il Cremlino ha risposta ieri mattina in maniera molto netta, ancorché pacata, negando del tutto che la Russia sia implicata in quelle pubblicità: insomma, i famosi interventi back-door della Cua svelati da WikiLeaks, quello con devices in grado di entrare in un sistema e lasciare tracce di un soggetto terzo per incolparlo, potrebbero essere entrati in azione la scorsa estate. E se anche Trump ha immediatamente bollato come non-sense la nuova pista – «L’inganno Russia prosegue, ora con le inserzioni su Facebook. E la copertura mediatica totalmente offensiva e disonesta in favore della corrotta Hillary?» -, qualcosa si sta muovendo nel corpaccione del Deep State. Per l’esattezza nell’area calda e operativa, il Pentagono e i suoi addentellati. E non ha nulla a che fare con il presunto nemico nordcoreano ma molto con la Russia.
Tutti voi immagino conosciate Morgan Freeman, premio Oscar e famosissimo attore statunitense, protagonista di decine di film di successo. Bene, questa settimana ha prestato il suo volto a una nuova campagna di fiancheggiamento che la cosiddetta “società civile” statunitense ha messo in campo per fiancheggiare proprio l’inchiesta Russiagate, una mossa mediatica di primo livello. L’iniziativa si chiama Investigate Russia e quello che potete vedere qui è lo spot televisivo di cui proprio Morgan Freeman è protagonista: come avrete sentito, le sue parole non sono concilianti. Il protagonista di Deep Impact e Al vertice della tensione – dove, guarda caso, interpretava rispettivamente il presidente Usa e il capo della Cia – è stentoreo nel proclamare che «siamo stati attaccati» e, soprattutto, «siamo in guerra».
Non sono parole a caso, dire siamo in guerra ha un suo peso: e, ripeto, non si è scelto un testimonial a caso, ma uno che la gente si ricorda, recentemente e quasi pavlovianamente, in ruoli da grande patriota americano. Lasciate stare che nel board del Committee to investigate Russia, che gestisce l’operazione mediatica, ci siano uno spergiuro conclamato come James Clapper, ex direttore della National Intelligence e nientemeno che Rob Reiner, uomo il cui contributo alla geopolitica mondiale è stato dirigere Harry ti presento Sally, la questione è seria per un altro motivo: quando il Pentagono muove Hollywood e le sue star, qualcosa sta per accadere. Come si sa, l’America eccede in propaganda e questo vale anche per i film di successo, ovviamente romanzati ma dal chiaro intento dottrinario per le masse.
Come dimenticare Rambo III, nel quale Sylvester Stallone combatteva al fianco dei valorosi mujaheddin afghani contro l’esercito russo e un particolarmente crudele generale dell’Armata rossa? La prima che vedete più sotto è la scena finale del film, con dedica appunto ai combattenti islamici afghani. La seconda, invece, è la versione della stessa post-11 settembre per il mercato Usa. Non male, trattasi di contrappasso, penso. O di karma. Il tutto reso ancora più comico dal fatto che l’11 settembre, stando agli atti del Congresso, ha visto lo zampino saudita, non afghano. Propaganda allo stato puro.
Ma non pensiate che solo gli Usa abbiano dato il loro meglio a livello di filmografia per quanto riguarda l’Afghanistan: nel 1987, un anno prima di Rambo III, scomodarono addirittura uno dei gioielli della corona cinefila, ovvero James Bond, il quale nel film The living daylights si trova a combattere accanto ai valorosi mujaheddin contro i russi cattivi e invasori, arrivando a distruggere una loro base militare. Ma non c’è da stupirsi, Hollywood a sempre fatto da cassa di risonanza delle esigenze belliche Usa, tanto che dopo l’11 settembre più di un terzo dei film arrivati alla vetta dei box office era di guerra: basti ricordare Black Hawk Dawn, We were soldiers o proprio Al vertice della tensione. Come fece notare sul Village Voice il critico Jon Hobermann nel suo articolo Come Hollywood ha smesso di aver paura e ha cominciato ad amare la bomba, mai come dall’epoca dell’azionismo reaganiano (proprio la trilogia di Rambo ma anche Top Gun ne furono le pietre miliari) l’industria cinematografica è stata così vicina, pressoché contigua, a Washington.
Non è un caso che alla prima assoluta de Al vertice della tensione fossero presenti – ben visibili e con lo sguardo attento verso le telecamere della Cnn – sia il vice-presidente dell’epoca, Dick Cheney, sia il capo del Pentagono, Donald Rumsfeld. Di più, contravvenendo a un dogma sacro dello show-biz Usa, l’anteprima venne spostata da Los Angeles a Washington: perché? Come da ammissione della Paramount Pictures, produttrice del film, la Cia «ha contribuito simbolicamente alla realizzazione del film stesso»: e quelli dell’intelligence odiano caldo e palme. L’anteprima assoluta di We were soldiers, invece, venne addirittura organizzata con una proiezione privata per George W. Bush, Condoleeza Rice, Donald Rumsfeld e alti papaveri della Difesa. Ma anche il mondo accademico Usa si è prestato bellamente alle necessità propagandistiche del governo, visto che dopo l’11 settembre l’Istituto di Arti Creative dell’Università della California del Sud ha organizzato decine di incontri e seminari con lo scenografo Steven De Souza (autore tra l’altro dell’action movie 58 minuti per morire) e con il produttore Joseph Zito (inventore di b-movie di successo come Delta force o Invasion USA) per immaginare nuovi scenari di attacco terrorista e mettere a punto la risposta adeguata.
Chi presiedeva i meeting? Il generale Kenneth Bergquist. Perché per rendere credibili le false flag servono professionisti del ramo, come ci insegna il film Sesso e potere, dove per sviare uno scandalo sessuale del presidente si arriva a inventare di sana pianta una guerra in Albania, il tutto comodamente negli studi di un emittente tv: e per la gente, quella guerra era vera.
(1- segue)