Gli italiani, diceva Montanelli, alla collaborazione preferiscono la collusione (esattamente come preferiscono l’inaugurazione alla manutenzione…). E si spiega così perché, individualmente intelligenti – oggi si potrebbe dire smart -, messi insieme non riescono a combinare nulla di buono eccellendo invece nel malaffare. Una considerazione del genere deve aver ispirato sul Foglio il direttore generale della Banca d’Italia Salvatore Rossi che, rompendo una tradizione di silenzio, ha voluto dire la sua sulla “vexata questio meridionale” per spiegare che il problema della mancata crescita è l’assistenzialismo secolare che genera sprechi e inefficienza.
Se la pratica della collusione è un tratto nazionale, è nel Mezzogiorno che trova la sua massima applicazione con ciò vanificando ogni sforzo propositivo. Sappiamo, si legge, che al Sud l’illegalità diffusa è molto più presente che al Nord pur non essendo affatto prerogativa esclusiva dei meridionali. Manca un adeguato capitale sociale. Questa situazione, è la tesi di Rossi, condiziona pesantemente l’utilizzo delle risorse economiche che al Sud – si azzarda – non sono mai mancate. Né mancano oggi, perché equamente distribuite rispetto al Nord. Che si parli di istruzione, sanità, giustizia o altro, i soldi sono allocati dallo Stato con equanimità. E non basta.
I meridionali, si dice, sono avvantaggiati dalla distribuzione operata al centro perché versano meno tasse (sono mediamente più poveri), ma ricevono lo stesso stanziamento pro capite; con questo drenando e sciupando la ricchezza che gli operosi cittadini lombardi e veneti (non per niente desiderosi di staccarsi) producono.
Insorge Gianfranco Viesti sul Mattino e risponde sul Foglio Alessandro Laterza attaccando questa posizione con l’aiuto di numeri che dimostrano come – se è vero che i settentrionali versano di più al fisco è anche vero che – quello che giunge in basso è assai poco pur mettendo nel conto i fondi europei e della coesione sociale.
Tutti e tre gli interventi sono portati con eleganza. Gli autori si confrontano con civiltà e mettono al servizio dei rispettivi argomenti le loro conoscenze empiriche e scientifiche. Ma la distanza è davvero grande e non si capisce come sia possibile che a settant’anni dalla sua nascita la Questione Meridionale resti sulla linea di partenza.
O forse no. Perché su un punto sembrano tutti convergere. Se agli albori della discussione s’immaginava che si potesse un giorno giungere a un’onorevole composizione degli interessi, con le due Italie finalmente unite, oggi questa speranza sembra persa e il divario si mostra come una condanna immodificabile e permanente. Nonostante qualche spiraglio fatto balenare qua e là nelle spiegazioni dei duellanti, appare evidente che la fiducia nel cambiamento venga sempre più a mancare. E in presenza di risorse considerate comunque scarse ciascuna parte cerca di assicurarsene il più possibile non credendo più in una composizione virtuosa del confronto.
Resta da capire a chi giovi una più accentuata frammentazione del Paese con rinascenti egoismi e intellettuali contrapposti per dar ragione a questa o quella fazione minando l’unità nazionale che è il minimo sindacale per aver voce in capitolo in un’Europa alla ricerca di una coesione vera per fronteggiare sfide mondiali.