Vi chiedo aiuto e sostegno, perché a occhio e croce deve essermi sfuggito qualcosa negli ultimi giorni. Fino a giovedì, infatti, eravamo per l’ennesima volta alle soglie dello scoppio della Terza guerra mondiale, con Donald Trump e Kim Jong-un che si insultavano come due curve calcistiche contrapposte e dotti analisti che ci dicevano come i rischi fossero ormai molto e drammaticamente concreti per un’escalation militare. Di più, gli Usa spedivano aerei in ricognizione sul confine fra le due Coree, un qualcosa che faceva presagire epiloghi catastrofici a brevissimo. Almeno così ci dicevano i media autorevoli. Poi, di colpo, forse precipitato in un sonno-sortilegio, mi sono svegliato e il problema numero uno di Trump e dell’America erano i giocatori di football e basket che non celebravano con sufficiente rispetto e trasporto l’inno nazionale, un qualcosa in grado di catalizzare l’attenzione di giornali e tg per giorni, il tutto con sprezzo del ridicolo quasi senza precedenti. 



Quale salto logico mi è sfuggito, nell’arco di una manciata di ore, per ritrovarmi a constatare una quasi guerra e subito dopo una dotta disputa fra la Casa Bianca e il fior fiore dello sport Usa su un rituale pre-partita? Nessuno, le pantomime vivono così, di stop-and-go, altrimenti non potrebbero ontologicamente campare così a lungo: dopo una settimana anche il più fedele e osservante dei lettori di Severgnini capirebbe che lo stanno prendendo per il naso. In compenso, sentirete parlare pochissimo di quanto sta accadendo in uno degli attori comprimari della crisi coreana, ovvero il Giappone. Il quale dopo aver rivisto al ribasso drammaticamente le stime del Pil e aver posticipato di un anno il raggiungimento di quota 2% per l’obiettivo dell’inflazione, aveva sfruttato in maniera molto furba il clima di tensione, aumentando a dismisura le spese di difesa proprio come voce moltiplicatrice del tasso di crescita. 



Ieri, però, è accaduto altro: non fossero bastate le elezioni tenutesi fino a qui e con davanti ancora lo spettro del referendum catalano di domenica e le elezioni in Austria del 15 ottobre e in Bassa Sassonia in novembre (il Land fondamentale della Volkswagen), ecco che Shinzo Abe in una conferenza stampa lampo ha annunciato che dopodomani scioglierà il Parlamento e che, presumibilmente il 22 ottobre, il Paese tornerà alle urne per un voto anticipato reso necessario «per ottenere un mandato pieno al fine di implementare una serie di provvedimenti, tra cui un aumento delle tasse finalizzato alla spesa pubblica per educazione e per il pieno supporto nei confronti delle provocazioni belliche e i test missilistici della Corea del Nord». Altro voto, altro regalo. Abe non cerca un mandato forte, ma soltanto l’ultimo mandato possibile, visti i sondaggi: vota ora perché, stante il clima di sfiducia da ritorno della deflazione, solo votare la prossima primavera sarebbe un suicidio. Insomma, il Giappone sta alzando – di fatto – bandiera bianca, ammettendo davanti al mondo che il grande esperimento keynesiano non è solo miseramente fallito, ma che adesso servono echi di guerra emergenziali per cercare di uscirne senza far crollare tutto, Nikkei in testa, ovviamente. 



E poi, come mai tanto silenzio sulla Francia? Quando Macron batté Marine Le Pen sembrava che i nostri cugini d’Oltralpe fossero i testimoni e i depositari di chissà quale destino comune, mentre ora che c’è da raccontare la ciccia e non il fumo, tutti zitti? Già, perché sempre ieri, nel rinnovo della metà del Senato francese con il voto dei “grandi elettori”, il partito La Republique En Marche (Lrem) ha ottenuto meno seggi di quanto ci si attendeva: Lrem, che sperava di vincere fra 40 e 50 senatori, ne ha ottenuti 23 e dovrà contare su alleanze con deputati di altri partiti per sostenere di volta in volta il governo. Il punto era capire se Macron e i suoi alleati sarebbero riusciti a ottenere un numero sufficiente di seggi tali da garantire la maggioranza dei tre quinti in entrambe le Camere del Parlamento, di cui Macron ha bisogno per le riforme costituzionali. 

Nel voto di ieri si dovevano assegnare 171 dei 348 seggi del Senato: ne è uscita consolidata la maggioranza conservatrice del Senato, composta da circa 150 membri del partito conservatore Les Republicains, il che conferma il Senato come un contrappeso per Macron, nonostante l’Assemblea nazionale, in cui il partito del presidente ha una chiara maggioranza, abbia l’ultima parola sulle leggi. Questo esito potrebbe complicare i piani di Macron di realizzare riforme costituzionali e giunge mentre il suo livello di popolarità è in calo – spinto giù dalla riforma del lavoro e dai tagli previsti al bilancio -, a soli quattro mesi dalle elezioni presidenziali di maggio che lo hanno incoronato inquilino dell’Eliseo dopo François Hollande. 

Ma come, Macron non doveva salvare l’Ue? Non aveva vinto perché il Paese vedeva in lui l’unico salvatore dall’Apocalisse neofascista della Le Pen? Che luna di miele breve, non vi pare? L’importante è non raccontarla, altrimenti la narrativa europeista dei moderati che salveranno il mondo viene giù come un castello di sabbia. E a proposito di Europa e moderazione, che dire del voto tedesco? Per carità di patria e per non insultare la mia e la vostra intelligenza, non mi addentrerò nemmeno nell’idiota dibattito sui neonazisti che entrano al Bundestag, non fosse altro perché AfD ha una leader lesbica sposata con una donna cingalese con cui ha due figli non certo generati naturalmente: se vi pare la famiglia ariana prefigurata nei Mein Kampf, fatevi curare. E da uno bravo. Diversa è la questione alleanze e qui salta fuori la coda di paglia italiana. Oltre alla nostra più che giustificata paura per quanto accadrà a Berlino da qui a fine anno. 

Di fatto, con il “no” della Spd alla prosecuzione della Grosse Koalition, l’ipotesi di governo più accreditata è la cosiddetta Jamaica, ovvero il nero-giallo-verde di Cdu-Liberali-Verdi. Bene non abbiate paura della xenofobia o delle derive nazistoidi dell’AfD, cominciate ad aver paura di Chrstian Lindner, il politico che ha fatto rientrare i Liberali tedeschi al Bundestag, portandoli al 10% e drenando parecchi voti di destra proprio dalla Cdu/Csu. Ci farà rimpiangere Wolfgang Schaeuble. E molto. Perché gli analisti tedeschi dicono che una delle precondizioni per il dialogo riguardo l’ipotesi di coalizione sia il ministero delle Finanze ai Liberali, di fatto i falchi più falchi del rigore in Germania, i migliori alleati di Jens Weidmann e della Bundesbank, nemici giurati della Bce in versione Draghi e dei suoi programmi di salvataggio e stimolo. Sono loro l’eventuale problema, non certo AfD. 

E che nelle stanze che contano lo abbiano capito e usino la solita retorica antifascista come cortina fumogena, ce lo dicono queste parole: «Il rafforzamento dell’estrema destra è un segnale negativo per l’Italia. Questo è un partito anti-italiano, anti-Mediterraneo, che ci considera quasi degli esseri inferiori. Mi auguro che finalmente la politica veda una presenza dell’Italia più forte, perché il risultato tedesco impone all’Italia di essere protagonista per avere un’Europa bilanciata, un’Europa che guardi al futuro». Chi le ha pronunciate, non più tardi di ieri mattina? Antonio Tajani, italianissimo presidente del Parlamento europeo. Siamo alla versione istituzionale di pizza e mandolino, come vedete, ma di fondo c’è il grande timore, quello di cui vi parlo da mesi: la fine della ricreazione per i cosiddetti Paesi del Club Med, il ritorno in grande stile della Germania nella richiesta di rigore e fine della flessibilità e degli aiuti. E se questa ipotesi era già in agenda anche con una prosecuzione della Grosse Koalition, pensate ora se dovesse davvero nascere un governo Cdu-Liberali: Antonio Tajani, da politico scaltro e uomo intelligente, non ha potuto dirlo chiaro e tondo, visto il ruolo istituzionale e super-partes, ma ha parlato a nuora perché suocera intenda. 

Il 26 ottobre la Bce sarà chiamata, per l’ennesima volta, a dire la sua sul ritiro del programma di Qe e, questa volta, le pressioni politiche su Draghi saranno decisamente amplificate, proprio stante l’esito del voto tedesco. E questo grafico ci mostra un qualcosa che dovrebbe farci guardare in casa e recitare il mea culpa, prima di attaccare a colpi di stereotipi i tedeschi, i quali certamente non sono esenti da colpe: attraverso le liabilities del programma Target 2, ci mostra come il Qe della Bce non ha solo sostenuto le nostre banche e le nostre aziende attraverso gli acquisti diretti, ma anche facilitato le fughe di capitali di investitori domestici verso il Nord. Insomma, si scappa prima che la campanella della ricreazione suoni davvero, altro che sentimenti anti-mediterranei. Lasciamo le dotte e inutili disquisizioni sul futuro ideale dell’Europa ai Letta e ai Veltroni di turno, gli stessi che ci parlano dei pericoli xenofobi rappresentati da AfD e pensiamo alle cose serie: i soldi. Perché alla fine, l’economia si basa su quelli. Ma se volete, credete pure alla narrativa dei nuovi nazisti e anche della guerra nucleare coreana.