Dunque stavolta l’Europa batte un colpo: “L’economia digitale cambia profondamente il modo di fare business e quindi il modo in cui deve essere tassato”, scrivono Italia, Francia, Germania e Spagna in un documento che verrà discusso venerdì al vertice di Tallin. A tal fine occorre “una profonda revisione dell’attuale sistema di tassazione, per assicurare un fisco efficiente, equo e trasparente”. Forse è la volta buona. I Gafa (Google, Amazon, Facebook e Apple) fregano il fisco innanzitutto in casa loro, gli Stati Uniti, e poi nel mondo, facendo emergere i loro ricavi-monstre soltanto nei paradisi fiscali dei cinque continenti, dove lasciano una manciata di tasse, tra l’impotenza degli Stati “normali”.



È una porcheria e va sanata. Già i Gafa hanno costruito imperi (almeno i primi tre) assumendo un’inezia di personale: per i loro enormi business le persone servono a poco. Per giunta non pagano le tasse. È un assurdo inammissibile. Ma c’è di più. Questa sfiancata e tardiva, ma finalmente convinta, unità degli europei contro i furbetti dell’evasione è il segnale più evidente di un più vasto movimento di ribellione a uno strapotere strisciante di quest’oligopolio mondiale che sfugge a ogni norma, e pretende con una supponenza senza precedenti di dettarne a tutti, in nome di una pretesa, ma inesistente, superiorità culturale.



È la spocchia della Silicon Valley, quell’atteggiamento di primato mentale che connota e accomuna tutti i vertici di quei gruppi. Contro i quali qua e là le proteste e le polemiche vanno moltiplicandosi.

I Gafa non sono buoni, e veramente non hanno niente da insegnare a nessuno in termini di etica negli affari e di etica tour-court. Fanno i loro interessi e basta. Senza peritarsi dal violare qualunque regola, con la scusa di una “disruption” digitale che a ben vedere giova se non soltanto a loro, soprattutto a loro. Ci fanno credere che giovi anche a noi consumatori, ma la regola è che se da una parte le loro innovazioni ci danno una mano, dall’altra si prendono tutto il braccio.



Tutto cominciò con lo scontro senza precedenti tra la Federal board investigation (Fbi) e la Apple sulla richiesta della prima di accedere ai contenuti dell’i-Phone del terrorista di San Bernardino. Incredibilmente, la Apple “tenne il punto” e non mollò, e pare che la Fbi sia poi riuscita ad hackerare da sola l’aggeggio per ricavarne comunque le informazioni volute. Era il marzo del 2016. Più recentemente, e intanto che il mercato si incaricava di stangare mostri sacri del web antichi come Yahoo (antichi si fa per dire) e moderni come Twitter, falliti o quasi, c’è stato il caso della rivolta generale dell’opinione pubblica americana contro il capo di Uber, costretto a dimettersi per cattiva condotta manageriale, e poi lo scandalo di quel dirigente Google che, avendo messo per iscritto il “pensiero unico” aziendale sull’inattitudine femminile a far business nel digitale, è stato buttato fuori dall’azienda.

Di pochi giorni fa, infine, la clamorosa estromissione di Uber dalle strade di Londra. La capitale europea del digitale, la metropoli più cablata e informatizzata del Vecchio Continente, e tra le più avanzate del mondo, ha semplicemente tratto le logiche conseguenze dalla constatazione che Uber e i suoi driver violano le leggi britanniche sulla sicurezza del trasporto pubblico. Le auto di Uber non fanno revisioni speciali, i driver nemmeno sulla loro idoneità alla guida, e non garantiscono quella maggiore attenzione alla sicurezza dei viaggiatori che invece i tassisti classici sono tenuti a rispettare. A Londra, poi, i “Cab” sono un mito, un’icona turistica. Macchine tutte più o meno uguali, nere e di foggia antica, pur avendo meccanica e tecnologie nuovissime, per onorare una tradizione che è parente stretta dei bus a due piani e delle cabine telefoniche rosse con i vetri a scacchi, non ancora soppiantate dai pur ubiquitari telefonini. 

Eppure, mentre tutto questo attesta che la classe dirigente almeno europea inizia a non poterne più di un dilagante quanto autoreferenziale strapotere digitale, quest’ultimo continua e sta aggredendo, come uno sciame di locuste, un altro settore di intermediazione: quello delle transazioni di denaro. I vecchi bancomat, le vecchie carte di credito, i vecchi bonifici bancari, stanno declinando sotto la spinta dei sistemi peer-to-peer per pagare e scambiarsi denaro senza lasciare commissioni alla banca di cui pure si utilizza la titolarità del “domicilio digitale” dei soldi che si usano. La normativa europea lo consente. E gli operatori se ne avvalgono.

Ma attenzione: amputare le banche di un altro filone di ricavi, come sta accadendo, accelererà la crisi già palese di questa categoria di aziende che è pur sempre cruciale per l’economia, non solo dei Paesi avanzati. Ben venga per gli interessi dei consumatori. Peccato che i consumatori siano anche contribuenti, e che i vantaggi di oggi, del non pagare provvigioni rese inutili dal combinato disposto delle nuove tecnologie e delle normative che le consentono, verranno bilanciati dai danni di domani, quando a carico della fiscalità generale finiranno i maggiori costi legati all’ammortizzazione sociale dell’ondata di disoccupazione che si profila sul futuro del ceto bancario. 

Ricordiamocene, quando accadrà. Pasti gratis non se ne offrono più: se tagliamo – e forse se lo meritano, se non altro per manifesta insipienza e incapacità lobbistica – filoni di ricavi alle banche, pagheremo i loro costi di ristrutturazione e quelli del welfare che dovrà pur soccorrere una categoria in via di decimazione. Ricordiamocelo: perfino un tipo, diciamo così, incline all’edulcorazione dei fatti come Matteo Renzi disse, al Cernobbio di un anno fa, che i bancari italiani sono il doppio del necessario. Come dire che la categoria sta per espellere 160 mila persone. E Renzi aveva ragione.