Se fosse servita una riprova al fatto che quella con la Corea del Nord sia una pantomima tutta americana e che, soprattutto, a Washington comanda il Pentagono e non la Casa Bianca, la giornata di martedì ci ha offerto la conferma. Mentre infatti Donald Trump tuonava che gli Stati Uniti «sono totalmente preparati per la seconda opzione, quella militare, che non è la preferita perché sarebbe devastante», il segretario alla Difesa Usa, Jim Mattis, ha di nuovo assicurato che gli Stati Uniti vogliono risolvere per via diplomatica la crisi : «Noi abbiamo le capacità per contrastare le minacce più pericolose della Corea del Nord, ma anche per sostenere i nostri diplomatici in modo da tenerle il più a lungo possibile in ambito diplomatico». Insomma, il gioco delle parti prosegue. E funziona. 



Come riportato da MilanoFinanza, la California ha preso sul serio le minacce di Kim Jong-un e si prepara all’eventualità di un attacco nucleare. Un rapporto rilasciato dallo Joint Regional Intelligence Center di Los Angeles, pubblicato dalla rivista Foreign Policy, raccoglie in 16 pagine il piano ideato per arginare i danni di un malaugurato attacco nordcoreano. Stando al Joint Regional Intelligence Center, sarebbe imprescindibile prepararsi a rispondere all’emergenza nucleare con intelligenza, programmando interventi e azioni atte a «ridurre il numero delle vittime e consentire una risposta efficace». Stando poi alle stime riportate da Newsweek, in caso di un attacco nucleare potrebbero morire all’istante 60mila persone, mentre 2-3 milioni dovrebbero essere immediatamente evacuate a causa delle radiazioni. 



La California non è il primo Stato ad attrezzarsi: alle Hawaii, infatti, la scorsa settimana un gruppo di esperti si era riunito per iniziare a prendere in esame le possibili azioni in caso di disastro nucleare. E anche i sudcoreani si preparano al peggio. Stando l’agenzia Yonhap, in occasione del Chuseok, una sorta di giorno del Ringraziamento, una società di spedizioni di Seul ha regalato ai suoi dipendenti dei kit di sopravvivenza a un’eventuale guerra: «Considerate le circostanze, abbiamo creato un kit con tutto ciò che potrebbe servire in caso di emergenza e lo stiamo distribuendo», ha fatto sapere la società. E così i lavoratori si sono visti recapitare uno zaino contenente un sacco a pelo ultraleggero, una coperta, un elmetto, una maschera a gas, un kit per le medicazioni, una radio portatile, una lanterna, un compasso, un impermeabile, un coltellino svizzero. E attenzione, su Internet kit di sopravvivenza simili a quelli donati per il Chuseok vengono venduti con ritmi vertiginosi: tensione alle stelle e panico ormai a fior di pelle. Esattamente un toccasana per chi punta a sfruttare l’effetto moltiplicatore del warfare sui dati di crescita, stanziare risorse pressoché illimitate per le spese della difesa e, soprattutto, mantenere impegnata l’attenzione dei cittadini con gli spauracchi nucleari e i fantasmi del day after. 



Ma nel frattempo, cosa accade davvero nel mondo? La Russia ha lanciato il suo terzo missile balistico intercontinentale in quindici giorni. Ma a differenza dei primi due test, a essere stato lanciato ieri dal poligono di Kapustin Yar, nella regione meridionale di Astrakhan, è stato un sistema Topol RS-12M (SS- 27 Sickle-B). Silenzio totale del ministero della Difesa russo sui dettagli del numero di testate impiegate: «I dati relativi al lancio del Topol saranno utilizzati per sviluppare avanzati sistema di penetrazione anti-missile». Ciò che si sa è che il missile a propellente solido è immune allo Scudo Antimissile americano (Abm), grazie alle sue capacità di compiere brusche virate, rilasciare falsi bersagli, oltre alla completa schermatura contro ogni tipo di attacco Emp o laser. L’unica possibilità di abbatterlo sarebbe nella fase di spinta (Boost Phase): compito che spetterebbe agli intercettori basati in Polonia. Con i suoi diecimila chilometri di gittata, il Topol-M potrebbe colpire impunemente qualsiasi parte degli Stati Uniti, oltretutto con una probabilità di errore stimata in 200 metri: trasporta una singola testata con una resa massima di 550 kilotoni, ma può essere facilmente riconvertito per il trasporto massimo di sei testate Mirv/Marv. A differenza della sua controparte statunitense, il Topol-M può essere lanciato sia da rampe mobili che da silos. 

Un messaggio di Mosca? Direi proprio di sì e, questa volta, non solo in risposta all’attivismo atlantico a Est e nel Baltico, ma anche per la morte del generale Asapov vicino a Deir ez-Zor, in Siria, durante un attacco di Daesh, sostenuto di fatto da forze speciali statunitensi: domenica, sempre il ministero della Difesa russo ha reso noto fotografie satellitari e di droni che mostrano come reparti d’elite Usa fossero dislcocate in aree sotto il controllo dei terroristi fra l’8 e il 12 settembre scorsi. Di fatto, hanno sostenuto forze che hanno ucciso il più alto in grado sul campo da quando è iniziata l’operazione russa in Siria: dopo i piloti abbattuti dai turchi, Mosca piange altri militari su complicità Nato. Il segnale è arrivato chiaro e ha ottenuto un altrettanto chiara risposta. 

Ma c’è di più: la Russia sta infatti preparando l’incontro tra il premier libico Fayez al-Sarraj e il maresciallo Khalifa Haftar, leader di Tobruk, che dovrebbe aver luogo nei prossimi mesi a Mosca. Lo riportava ieri il quotidiano Izvestia che citava una fonte vicina al ministero degli Esteri. Stando alla testata, la Russia avrebbe già incassato il consenso di Haftar. Sarraj, interpellato dal giornale, non ha escluso che le trattative siano in corso e si è limitato a dire che al momento «non c’è ancora una data per tale incontro». Di fatto, non ha negato. Ma attenzione, perché se l’attivismo diplomatico russo in Medio Oriente continua la sua espansione, ragione del doppiogiochismo Usa in Siria, è un altro il grande player globale che, lontano dagli schermi, sta muovendo pedine pesantissime, sia in Medio Oriente che in Africa. 

È di ieri, infatti, la notizia che l’Autorità nazionale palestinese (Anp) è stata ammessa come Stato membro nell’Interpol, l’organizzazione internazionale della polizia di 190 Paesi. Lo ha confermato il ministero degli Esteri israeliano; la votazione è avvenuta durante l’assise dell’istituzione in corso in Cina e la mozione di accoglimento dell’Anp nell’organizzazione è stata contrastata fino all’ultimo sia dagli Usa, sia da Israele. E la cosa non stupisce, alla luce sia del riavvicinamento in corso nei Territori con Hamas, sia dell’attacco contro quattro militari israeliani dell’altro giorno, definito proprio da Hamas «l’inizio di una nuova Intifada». Insomma, Usa e Israele, già molto impegnati nel contenimento – a tutti i livelli – dell’influenza iraniana in Siria, spalleggiata dalla Russia, ora si ritrovano con un altro fronte aperto e con una decisione spartiacque come questa, avallata di fatto dal padrone di casa. 

È infatti la Cina che si sta muovendo in maniera più decisa sul fronte mediorientale, ma, soprattutto, su quello africano, dove venerdì scorso hanno avuto luogo (si sono concluse l’altro ieri) le prime manovre militari vicino alla nuova base militare nel Corno d’Africa, esattamente nello strategico stretto di di Hormuz a Djibouti, come ci mostra il grafico, riferito ai chokepoints petroliferi più importanti dell’area. Ed erano manovre operative, come ci mostra questo video, il tutto a meno di due mesi dall’inaugurazione della tanto agognata installazione militare nel Paese africano, frutto di anni di corteggiamento politico e investimenti a pioggia di Pechino per rompere gli indugi del governo locale, a sua volta sotto pressione da parte Usa che in quell’area hanno la strategica base di Camp Lemonnier, utilizzata per operazioni anti-terrorismo con aerei e droni nel Corneo d’Africa e nel Maghreb. 

«Questa è la prima volta che i nostri militari dislocati a Djibouti hanno lasciato la base per condurre un addestramento al combattimento, un qualcosa che ci aiuterà a esplorare un nuovo modello di preparazione per le nostre truppe all’estero», ha dichiarato il comandante della base, Liang Yang. E la presenza cinese a Djibouti non è esattamente di passaggio: la base, inaugurata il 1 agosto scorso, resterà operativa almeno fino al 2026, stando agli accordi con il governo locale e con un contingente di ben 10mila uomini. Ufficialmente, Pechino ha dichiarato che l’utilizzo dell’infrastruttura militare sarà finalizzato a operazioni anti-pirateria e di sostegno alle azioni di peace-keeping e aiuto umanitario dell’Onu in Africa e nell’Asia orientale, ma a nessuno è sfuggito il fatto che, da subito, quella base appare un baluardo di contenimento della Forza di autodifesa marittima giapponese, presente a Djibouti dal 2011 (non a caso, al netto della falsa minaccia coreana, Tokyo ha subito ordinato manovre militari nell’area, iniziate lunedì e destinate a terminare il 2 ottobre), ma, soprattutto, un segnale chiaro agli Usa. Ovvero, non solo abbiamo colonizzato mezza Africa con il denaro delle nostre multinazionali di Stato, ma ora siamo presenti anche a livello militare. Oltretutto, proprio dove avete tentato in tutti i modi di non farci arrivare. 

Il mondo sta cambiando con rapidità enorme, equilibri che sembravano sedimentati sono stati ribaltati in pochi mesi. Non fatevi ingannare dalle false emergenze, prestate attenzione alle rivoluzioni silenziose. E quelle manovre militari cinesi a Djibouti sono destinate a diventare tali. È stato varcato un Rubicone enorme, quello della conquista militare dell’avamposto africano. Ovvero, del futuro.