Tra gli appuntamenti più interessanti del Meeting di Rimini è senz’altro da annoverare il ciclo di incontri promosso da Luciano Violante su crisi e cambiamento d’epoca. Si tratta di tematiche che meritano di essere approfondite di continuo, nell’ambito di un dibattito esteso, anche al di là della dimensione politica (democrazie, migrazioni ed economia), a partire dal presupposto che — come ha detto più volte il Papa — la crisi è antropologica prima di essere economica o finanziaria: espressioni come “crisi antropologica”, “crollo delle evidenze”, “cambiamento d’epoca”, infatti, non ci sono completamente intellegibili, per il semplice motivo che viviamo in una fase di transizione, dove non è così facile focalizzare eventi e situazioni.



Ripercorrendo in quest’ottica l’intervento di Ignazio Visco, ad esempio, si possono ricavare molti spunti di riflessione.

Il lavoro rappresenta la sfida più radicale, sia per garantire la continuità della ripresa, sia per la sua incerta evoluzione: l’impatto delle nuove tecnologie e, di conseguenza, l’investimento in innovazione per competere a livello globale decideranno della sopravvivenza delle imprese; da qui l’importanza di una formazione, per così dire, integrale, sottolineata dal Governatore: “occorre, da un lato, risolvere i problemi di contesto che ancora ci sono in Italia e quindi i servizi per le imprese, la capacità per le imprese di crescere, di nascere, crescere ma anche di chiudere quando è il caso di chiudere, senza poi dover pesare sull’economia, per esempio anche attraverso i loro rapporti con il sistema bancario; dall’altro occorre investire da parte di tutti, non solo sui giovani e non solo più sui banchi di scuola, ma nel corso di tutta la vita, nelle conoscenze e nelle competenze necessarie per questo secolo […]. Il futuro è un futuro che richiede di investire in conoscenze e competenze per poter procedere in questo nuovo passaggio di cui noi non sappiamo in realtà quale sarà l’assetto definito, ma sappiamo che bisogna avere una capacità di vivere questa nuova epoca”.



Tale cambiamento emerge chiaramente da uno degli esempi fatti dal Governatore che più mi ha impressionato, benché risaputo: un odierno smartphone ha una potenza di calcolo circa 18mila volte superiore ai più evoluti computer degli anni 60 (senza paragonare le dimensioni): qualsiasi teenager oggi, dunque, dispone liberamente di una potenza esponenziale a fronte di quella che, fino a cinquant’anni fa, era nelle mani di pochi esperti di settore e diretta a scopi precisi. 

Ciò non dà soltanto l’idea del progresso compiuto, ma anche delle conseguenze culturali. Per quanto concerne il lavoro saranno vitali intelligenze molto più elastiche e adattabili rispetto a quelle tipiche del vecchio mondo, oltre ad acquisire competenze specifiche, che saranno meno determinanti: “l’esercizio del pensiero critico, la creatività, la disponibilità positiva nei confronti dell’innovazione, la capacità di comunicare in modo efficace, l’apertura alla collaborazione e al lavoro di gruppo”. È in fondo il senso della risposta che, nel film citato dal Governatore, il rettore di Harvard dà a chi si lamentava di Zuckerberg per avergli rubato l’idea di Facebook: “Beh, è strano. Oggi ad Harvard gli studenti credono che inventare un lavoro sia meglio che trovare un lavoro”. Cambia “l’attitudine al lavoro”, conclude il Governatore: il lavoro come metabolismo dell’uomo con la natura — potremmo dire — non produce più solo i mezzi di sussistenza biologica, come aveva individuato Marx, ma si risolve totalmente nella creatività preliminare necessaria anche a quel fine.



Tuttavia, un ulteriore aspetto va esplorato, antropologico, come dicevo all’inizio: quale mente nascerà dagli apparati tecnologici che integrano la nostra persona? Quali impatti ci saranno, per esempio, sul versante affettivo? Come si vivrà gli uni accanto agli altri? Ci sarà ancora quella stabilità elementare insostituibile per gettare le basi di una produttività efficiente? Penso che questi interrogativi, suscitati in me dall’intervento del Governatore, siano fondamentali per non cadere in considerazioni parziali del problema.

Tra i numerosi punti toccati dal Governatore, poi, non è trascurabile quello relativo alla distribuzione della ricchezza e alla disuguaglianza: citando dati diffusi anche a livello di stampa, il Governatore si è soffermato sull’impressionante e progressiva riduzione del numero di persone in cui si concentra la ricchezza globale: nel 2010, 388 miliardari nel mondo detenevano la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di individui più poveri, per passare a 62 miliardari nel 2015 e a 8 nel 2016.

È notizia di questi giorni che Warren Buffett è diventato primo azionista della Bank of America, esercitando diritti di opzione acquistati nel 2011 durante la crisi del sistema creditizio e realizzando una plusvalenza di 11,5 miliardi di dollari, destinata ad incrementarsi notevolmente in previsione dei lauti dividendi che la banca riconoscerà in futuro ai propri azionisti, già quest’anno aumentati del 60% a 0,48 dollari per azione. Nel fargli i complimenti per l’intuito e il successo della scommessa, non possiamo non augurarci un più equo beneficio per tutti.