Da gennaio l’euro si è apprezzato del 14% circa nei confronti del dollaro con il cambio che ha varcato il limite psicologico di 1,20, il livello più alto dal 2015. L’euro ha poi guadagnato l’8,5% sulla sterlina portandosi a 93 centesimi, una soglia che non vedeva dal lontano 2009. Anche altre valute importanti come yen e franco svizzero hanno subito un deprezzamento nei confronti dell’euro che si è nei loro confronti apprezzato rispettivamente del 5,5% e del 6,2%. Nel complesso l’euro si è rivalutato su scala globale di circa il 5%.
Ciò è il risultato di vari determinanti. In primo luogo, le esportazioni aggregate dei 19 Paesi dell’eurozona ai massimi storici. A fine 2016 il surplus delle partite correnti dell’area — 340 milioni di abitanti per 11mila miliardi di Pil — si è attestato al 3,3% del Pil. In secondo luogo l’amministrazione americana, nonostante le promesse elettori in favore di un “dollaro forte”, ha in pratica assunto una politica di benign neglect (noncuranza benevola) nei confronti del cambio, che dall’inizio dell’anno, nonostante l’economia stia viaggiando bene (meglio di quella europea) in termini di produzione ed occupazione, si è deprezzato del 9% circa rispetto al paniere più rappresentativo nel commercio internazionale.
Ci si devono porre due domande: occorre preoccuparsi? si tratta di fluttuazioni momentanee o di un cambiamento strutturale? La stampa italiana ha posto l’accento, con una dose di inquietudine, sulle implicazioni di quello che viene chiamato il “supereuro” sui settori che maggiormente dipendono dalle esportazioni. Sono preoccupazioni poco fondate. Senza dubbio, alcuni esportatori soffriranno, ma la tendenza di questi mesi — come ho illustrato diffusamente altrove — dipende essenzialmente dal dollaro piuttosto che dall’euro o da altre monete significative. E non da determinanti economiche pertinenti all’economia americana.
Se si guarda in profondità, ci si accorge che il declino del valore del dollaro rispetto all’euro (e non solo) non è stato lineare ma a balzi, connessi ad avvenimenti politici. Negli ultimi mesi, ad esempio, il deprezzamento del dollaro è stato particolarmente acuto in tre momenti: quando l’Arabia Saudita (lo scorso giugno) ed altri Paesi del Golfo Persico hanno imposto un embargo nei confronti del Qatar, quando (in luglio) il presidente della Federazione Russa, Putin, ha messo alla porta 755 addetti di ambasciate e consolati americani e quando (negli ultimi quindici-venti giorni) si è aggravata la crisi con la Corea del Nord. Paradossalmente, in passato, avvenimenti del genere avrebbero spinto capitali verso il “porto sicuro” degli Usa. E ci sarebbe stato un apprezzamento del dollaro.
Perché si sta verificando il contrario? Numerosi osservatori — da Jeremy Cook di World First, una “boutique” finanziaria britannica specializzata in valute estere, ad Adam Posen, presidente del Peterson Institute for International Economics — ritengono che lo “stile” della presidenza Trump, prima ancora della sostanza, contenga semi di rischio per gli operatori; indubbiamente, il vasto numero di nomine, licenziamenti e nuove nomine, la prassi di comunicare per tweet spesso smentendo le stesse istituzioni che più prossime dovrebbero essere alla Casa Bianca e più dovrebbero essere dotate di dati e di analisi, l’impressione (vera o falsa) di cambiamenti “umorali” di politiche, strategie, programmi e misure aumentano il senso di rischio. E’ “la politica”, quindi, che spinge il dollaro al ribasso e porta l’euro e gli altri al rialzo.
Le fluttuazioni dei cambi sono un bene o un male? In un saggio pubblicato la settimana scorsa presso il National Bureau of Economic Reseach American, Jeffrey A. Frankel dell’Università di Harvard (è stato uno dei tre componenti del comitato dei consiglieri economici del presidente ai tempi dell’amministrazione Clinton), auspica un ritorno a tassi di cambio basati su un sistema di “fluttuazioni sistemiche gestite”: le banche centrali dovrebbero reagire prontamente alla pressioni dei mercati dei cambi, assorbendone parte nel tasso di cambio e parte in movimenti di riserve. Su una linea analoga sono Giancarlo Corsetti dell’Università di Cambridge, Keith Kuester della Banca Federale di Riserva di Filadelfia e Gernot J. Mueller dell’Università di Tuebingen nel Cepr Discussion Paper n. DP12197.
Vari modi per riscoprire, dopo 70 anni, i principi fondamentali degli statuti del Fondo Monetario Internazionale.