Non tutti lo sanno ma ieri è stata la giornata mondiale di protesta dei lavoratori dei fast-food, i quali sotto l’egida dei sindacati nazionali affiliati alla Iuf (Associazione internazionale dei Sindacati del settore ristorazione, alberghi, catering), cui aderisce la Filcams-Cgil per l’Italia, hanno dato vita a flash mob, volantinaggio e proteste in tutto il globo. Dal 2014 questi lavoratori si sono uniti, complice una campagna internazionale che ha denunciato come vive, lavora e viene pagato chi prepara e serve hamburger e cibo da strada. 



La Iuf, proprio perché lavora a livello internazionale, si occupa di formare un sindacato là dove non c’è (nei Paesi meno avanzati), di far crescere i salari in rapporto al lavoro svolto e soprattutto di incidere là dove è l’azienda a gestire i contratti in modo unilatelare. Ben lontana da situazioni di sfruttamento che continuano indisturbate nei fast food dei Paesi orientali dove McDonald’s o Starbuck sono sbarcati da tempo, anche in Italia la situazione non è delle migliori, visto che il contratto collettivo nazionale è scaduto da più di quattro anni. E la battaglia pare servire a qualcosa, se come accaduto nel Regno Unito, una lunga campagna del sindacato Bfawu contro i “contratti a zero ore” ha recentemente portato McDonald’s a stipulare contratti fissi e con un numero minimo di ore garantite. 



Negli Stati Uniti, patria del fast-food, è invece previsto uno sciopero nazionale per la campagna “FightFor15”, combatti per 15 dollari di salario garantito: lo scorso anno i dipendenti del comparto sono scesi in piazza in più di 300 città nel mondo e hanno coinvolto nella lotta magazzinieri, autotrasportatori e decine di migliaia di lavoratori. 

Questo dato non è solo importante, è fondamentale: più di mille statistiche o letture macro. E’ la cartina di tornasole di come anni e anni di combinato tra operatività criminale delle Banche centrali con i loro finanziamenti a pioggia di denaro a costo zero e allarmi di vario genere — dal terrorismo alla minaccia atomica alla destabilizzazione geopolitica — abbiano creato un mondo nuovo, figlio legittimo della crisi e pronto a mettere in campo il neonato paradigma della “crescita” e della “produttività” post-2008: un mondo di schiavi mal salariati. 



Non ci credete? Chi mi segue sa che nei mesi ho sempre tenuto una luce accesa sul dato occupazionale Usa, sulla miracolosa ripresa obamiana e più volte ho fatto notare che la gran parte dei numeri record che supportavano i dati dei nuovi occupati non agricoli facessero capo a due voci, camerieri e baristi, ovvero il non plus ultra del lavoro precario e sottopagato. Bene, questo grafico 

 

ci mostra dove siamo arrivati: è relativo alla lettura dello scorso mese di luglio e ci dice che quelle due categorie hanno conosciuto l’89esimo mese di fila di crescita, il tutto portando con sè anche il poco edificante record delle peggiori page salariali per settore: 13,35 dollari l’ora di media o 331,08 alla settimana. Un esercito di lavoratori senza una speranza, senza copertura sanitaria, spesso totalmente dipendente dalle mance dei clienti: ecco chi dovrebbe sorreggere la ripresa Usa. E, di fatto, quella globale. E con il dato della frequenza di presenze nei ristoranti che sta calando vistosamente, tra poco rischiamo un’ulteriore contrazione in questo comparto che fa da traino al Pil statunitense: o partono i licenziamenti oppure ulteriori tagli salariali. 

E vogliamo parlare del settore retail, le vendite al dettaglio che pesano per un 70% del Pil Usa nella voce consumi personali? Bene, se avete comprato recentemente qualcosa su Amazon — come ho fatto anch’io — avete appena tirato una fucilata ai loro conti, a livello globale. Quest’anno negli Usa chiuderanno 8.640 punti vendita, uccisi dalla contrazione delle vendite e, soprattutto, dal commercio on-line. E la cosa non potrà che peggiorare, perché è dell’altro giorno il dato che potrebbe configurarsi come il proverbiale chiodo nella bara: dopo l’acquisto del gigante dell’alimentare bio Whole Foods dello scorso luglio, Amazon ha deciso un taglio dei prezzi del 43%, scatenando un’ondata deflazionaria nel sistema praticamente incontenibile. Un pollo arrosto nel weekend è passato da 13,99 dollari a 9,99, una libbra di mele fuji da 3,49 a 1,99 dollari, le banane bio da 79 centesimi a 49 centesimi. Il cosiddetto settore grocery americano sta per essere spazzato via: negozi che chiudono o tagliano personale, quindi nuovi disoccupati o salariati senza prospettive a lungo termine e indotto — produzione, trasporto, imballaggio — che paga il fall-out. 

E chi ha consentito ad Amazon di disintegrare il mercato? La Fed e la sua politica, basti vedere l’andamento del titolo del gigante dell’e-commerce e quello dello stato patrimoniale della Banca centrale: identico. Soldi gratis su base di emissioni obbligazionarie facili, buybacks per pagare dividendi e cedole ed espansione ciclopica su un tessuto produttivo e di consumi devastato da otto anni di crisi durante la quale ha beneficiato dell’operato della Fed solo Wall Street, mentre la classe media si è o proletarizzata (quindi costretta a una riduzione dei consumi) o letteralmente polverizzata. 

Direte voi, se calano i prezzi è un bene per chi sta peggio. Sarebbe così se le dinamiche salariali non fosse inchiodate a zero da trimestri e trimestri, uno degli “intoppi” che permette alla Fed di fare melina e non alzare i tassi. L’altro qual è? Le previsioni inflazionistiche, calate inspiegabilmente nei mesi scorsi, nonostante l’aumento del tasso di occupati (solo formale, visto che diminuisce il dato della forza lavoro). 

Ed ecco qui la seconda fregatura per il 99% della popolazione mondiale, strettamente legata al dato del settore retail e del potere di acquisto: pensate che le grandi corporations non abbiano già aggiustato, in maniera seria rispetto alle Banche centrali e tutto a vostro discapito, il loro obiettivo inflazionistico reale rispetto al budget? Pensate che davvero stiano svendendo, operando sconti per il bene di chi ha poco? No, cari signori. E per dimostrarvelo vi do il benvenuto nel meraviglioso mondo della shrinkflation, la riduflazione, ovvero il vendervi minor quantità dello stesso prodotto al prezzo precedente. Queste due immagini 

 

 

 

parlano più di mille articoli: la prima vi mostra come sul mercato britannico il famoso cioccolato svizzero Toblerone abbia subito una netta dieta dimagrante nel contenuto ma non nel prezzo. La seconda è invece una tabella elaborata su dati ufficiali dell’Office for National Statistics che ci dimostra come dal 2012, nel Regno Unito, oltre 2500 prodotti abbiano subito una riduzione di contenuto ma non di prezzo. E noi non ce ne accorgiamo, perché ci sono interi uffici marketing e di product management che lavorano a queste cose. Come può un inglese essersi accorto che dal 2012 ad oggi la carta igienica Audrex ha ridotto i fogli in un rotolo da 240 a 221? Eppure lo ha fatto. E sapete come si chiama questa? Erosione del potere d’acquisto, lo stesso che gli sconti di Whole Foods o l’onnipotenza di Amazon dovrebbe far aumentare sulla carta? Balle, stanno solo dando vita a un massacro del commercio al dettaglio, quindi dell’economia reale e costruendo le condizioni per un mercato di schiavi salariati pronti a tutto pur di sopravvivere o raggiungere i contributi mancanti alla pensione: tanto, i soggetti dominanti solo talmente pochi e onnipotenti che o si accettano le loro condizioni o si muore. 

E pensate che solo il Regno Unito stia vivendo da anni la silenziosa mattanza salariale della shrinkflation? Non vedete un po’ troppe campagne di sconti straordinari anche nei nostri supermarket? Non vedete troppi cambi di formato nei prodotti di più largo consumo? Pensate sia solo marketing, solo un modo per invogliare all’acquisto? Non avete fatto caso, ad esempio, al fiorire di formati di bottiglie di Coca-Cola, ora ovunque con quelle da litro? Pensate lo facciano perché pesano meno e quindi invogliano all’acquisto? Avete fatto il riscontro con i prezzi di quelle da 1,5 litri negli ultimi mesi? E così via, nessuno è senza peccato tra i grandi marchi. 

Avete capito adesso perché si parla sempre di grandi temi e mai di cose come queste, del lato quotidiano dell’economia? La crisi del 2008 non è stato soltanto un modo per rimettere in sesto a nostre spese il sistema finanziario ma anche un enorme reset del mondo del lavoro, a tutto vantaggio delle grandi multinazionali. Ovunque, da Milwaukee al Laos passando per Milano, la battaglia vera è quella del salario e dei diritti minimi del lavoro: ma sui giornali si parla d’altro, si parla di ripresa robusta a livello globale, di tassi di interesse, di indici azionari. Date retta a me, state più attenti quando fate la spesa. E capirete davvero dove stiamo andando.