Nel sistema del potere mondiale spesso rotolano palle di neve che possono trascinare o dar luogo a pesanti slavine. E’ il caso delle dimissioni di Stanley Fischer dalla Federal Reserve, ossia dalla Banca centrale più importante del mondo. La signora Yellen, vicinissima a Fischer, in primo luogo per carriera accademica e vicinanza teorica, rischia di rimanere sempre più sola. Dei tredici posti raccolti attorno al grande tavolo del governo centrale della banca, sette da lungo tempo sono vacanti per nomine non effettuate né da Obama né da Trump e a questi sette via via se ne sono aggiunti altri di vuoti per dimissioni dei componenti. La dimissione di Fischer è dunque l’ultima. 



Non si tratta di una dimissione qualunque. Fischer è una figura centrale tanto nella storia del pensiero teorico economico quanto in quella del potere mondiale. Il giovane Fischer nasce keynesiano ma soprattutto innovatore, proseguendo quel percorso interdisciplinare inaugurato dal conferimento del premio Nobel dell’economia a Simon nel 1978, il quale sosteneva che l’organizzazione dell’impresa e di qualsiasi altro costrutto sociale era necessaria perché rispondeva al bisogno di sopperire ai comportamenti irrazionali degli individui singolarmente intesi. La teoria neo-classica delle aspettative razionali andava in frantumi, come in frantumi andava la subteoria dell’allocazione razionale delle risorse per mano del mercato. Il principio di gerarchia era ineliminabile. 



Un altro Nobel, Coase, l’aveva già affermato in un famoso scritto del 1927 sulla natura dell’impresa, ma la controrivoluzione liberista e sregolatrice aveva tutto travolto negli anni Ottanta-Novanta del Novecento. Fischer invece teneva duro con i suoi testi famosissimi quanti poco letti sulle aspettative razionali e soprattutto sul ruolo che le banche centrali erano destinate ad assumere in forma sempre più compulsiva via via che le bolle speculative aumentavano. 

Quando la crisi finanziaria mondiale scoppiò nel 2007, memorabile fu il discorso che Fischer presentò alla riunione della Trilaterale, che si svolse a Parigi nel 2008, e in cui predisse, con straordinaria lucidità, ciò che sarebbe venuto negli anni a seguire. Predisse il Quantitative easing e tutto ciò cui stiamo assistendo in questi anni. Significativo  il fatto che lo fece citando un brano della famosa opera di uno dei suoi più importanti maestri, Charles Kindleberger, sulla storia delle crisi finanziarie, in cui richiamava, dal punto di vista dell’economia mondiale, la via via crescente necessità del ruolo delle banche centrali. Kindleberger aveva riflettuto a lungo sulla crisi del ’29 e sui rapporti tra diritto ed economia, tanto da essere un riferimento intellettuale imprescindibile anche per coloro che studiavano e studiano il potere mondiale. 



Fischer, come dimostrò la sua relazione in quella cuspide visibile ma tuttavia importantissima degli arcani imperi mondiali, aveva visto sotto i suoi occhi avvicinarsi la crisi, avendo lavorato con altissime responsabilità direttive sia alla Banca mondiale sia al Fondo monetario internazionale. 

Ma Fischer, ed è questo che rende estremamente interessanti le sue dimissioni, appartiene a quella ristrettissima élite internazionale che contribuisce, dall’avvento dell’internazionalizzazione dei capitali e dei mercati, a configurare il meccanismo di potere che come un anello lega economia e politica. Sulla scia, per esempio, di Aristide Briand, Pierre Mendes-France, Jean Monnet, Fischer — nato in Rhodesia, cresciuto in America e in Israele, tanto da averne la doppia cittadinanza, oltre a essere stato uno dei capi della banca privata Citigroup — è stato per due volte governatore della banca centrale israeliana, chiamato a farne parte nel 2005, negli anni difficilissimi e tormentosi del governo Likud Kadima di Ariel Sharon, per essere poi riconfermato da Olmert, e per dimettersi poi da governatore nel corso del secondo mandato, durante il primo governo di Netanyahu. 

Tutto si può dire di lui ma non che non sia un grande intellettuale e un uomo con la schiena diritta. Le sue dimissioni  sono un grave colpo per la governatrice Yellen, che si vede privata non solo del migliore amico, ma altresì del sostegno di un rappresentante di una delle correnti più interessanti e più pensose del potere mondiale. Fischer si dimette infatti perché, sulla scia del suo famoso discorso alla Trilaterale, non cessa di insistere sulla necessità di una sempre più severa regolazione dei mercati e delle organizzazioni che in essi operano, fino a ritornare al Glass Steagall Act di rooseveltiana memoria. Fischer non è mai stato un blairiano o un clintoniano: non si è mai sottomesso all’alta finanza, anzi ha sempre cercato di vedere in essa uno strumento, per dirla nel linguaggio profetico ebraico, una sorta di stella della redenzione. 

Tutto il contrario di ciò che è successo dagli anni Ottanta a oggi. Di qui, queste dimissioni in chiara polemica con Trump, che tutto vuole tornare a sregolare, dopo i timidi passi avanti fatti con il Dodd-Franck Act e altre timide riforme dello stock exchange. 

Questo significa che lo scontro al vertice delle élite al potere si fa sempre più duro. Fischer non è Soros. Soros polemizza con Trump per difendere i suoi affari e quelli della famiglia Clinton, fino a finanziare manifestazioni e rivolte tanto negli Usa come in Romania, Ungheria e Russia. E si tratta di un’altra corrente del potere mondiale molto potente, che ha co-governato la politica mondiale per circa un trentennio, con i risultati che abbiamo dinanzi ai nostri occhi. 

Il problema è capire che conseguenze avranno queste dimissioni. Fischer, e le forze che a lui fanno riferimento, sanno che il rischio è il fatto che queste dimissioni consentano a Trump nell’immediato un’ampia libertà di manovra, nominando dei nuovi componenti della Fed più vicini a lui, così come ha sempre fatto sino ad ora, salvo per quel che concerne il potere militare che fa buona guardia e un’industria strategica dell’eccellenza come quella energetica. 

Ma le dimissioni di Fischer possono anche far presagire, soprattutto in un contesto internazionale così turbolento da sfiorare la guerra nucleare, per l’impressionante prevalere del disegno cinese (la Nord Corea altro non è che una pedina del grande impero di mezzo), un’accelerazione nella sostituzione di Trump, nonostante gli immensi problemi che ciò provocherebbe. Ma il filone del potere mondiale che Fischer rappresenta ha peraltro buoni rapporti con la Russia, con quella Russia che inizia sempre più a considerare il fatto che Trump non solo non mantiene le sue promesse elettorali, ma è l’ostacolo decisivo oggi al lento ritorno a una stabilità internazionale che non può non essere fondata su un deciso roll-back anticinese.