A chi fa comodo una Bce in versione falco? Viene da chiederselo dopo aver letto le minute dell’ultimo consiglio di politica monetaria del 13-14 dicembre, pubblicate ieri, in base alle quali parrebbe proprio che l’Eurotower si appresti a una revisione della formulazione della cosiddetta forward guidance sui tassi nei primi mesi di quest’anno, aggiustando gradualmente il proprio linguaggio al miglioramento delle prospettive di crescita per la zona euro. E non si tratta di questione di lana caprina, almeno a livello di percezione, il sangue di cui si nutrono mercati talmente sconnessi dalla realtà macro da doversi appoggiare di volta in volta a sensazioni e ipotesi “di laboratorio”: qualsiasi variazione della narrativa viene infatti monitorata con molta attenzione dagli operatori, i quali cercano di interpretarne i messaggi in chiave di una possibile exit strategy dal programma degli acquisti Qe, attualmente pari a 2.550 miliardi di euro e in perenne ridiscussione riguardo lunghezza e controvalore.
«Il linguaggio relativo ai vari aspetti della politica monetaria e alla forward guidance potrebbe essere aggiustato nei primi mesi dell’anno prossimo», si legge nei verbali della riunione di metà dicembre: di più, «all’interno del Consiglio c’è un accordo di massima secondo cui la comunicazione dovrà evolvere in modo graduale, senza alterare la sequenza». Ora, come conciliare quanto emerso dal Consiglio con quanto comunicato da Mario Draghi? Il governatore della Bce ha infatti concluso l’ultimo board sui tassi riconoscendo una maggior fiducia sulle prospettive per la crescita ma ribadendo altresì che l’appoggio della politica monetaria resta imprescindibile e, di fatto, ancora di lungo termine: «L’importanza relativa della forward guidance sui tassi andrà crescendo man mano che l’inflazione riprenderà un sentiero sostenibile di ripresa», si legge nei verbali della riunione, in cui i banchieri hanno anche espresso l’opinione che un ulteriore allentamento di politica monetaria non è più ritenuto necessario.
Poi, però, la contraddizione. La disconnessione proprio tra i progressi registrati nell’economia reale e le dinamiche dei prezzi «sembra sia continuata o sia addirittura aumentata negli ultimi mesi, dal momento che la crescita è stata più volte superiore alle attese nell’eurozona e le dinamiche dell’inflazione sono rimaste in larga parte immutate o hanno sorpreso al ribasso», si legge nelle minute, di fatto una presa d’atto del fatto che le dinamiche inflazionistiche non garantiscano trazione a mosse eccessivamente ottimistiche sui tassi e la loro evoluzione. Su questo tema, si apprende dai verbali dell’incontro, hanno presentato “molte osservazioni” i membri del Consiglio direttivo della Bce durante il meeting di politica monetaria di metà dicembre, rilevando che il fenomeno non è stato comunque limitato all’area euro, ma ha coinvolto diverse economie avanzate.
I membri del Consiglio, in definitiva, hanno comunque concluso che «l’espansione economica più forte del previsto, sostenuta da condizioni favorevoli di finanziamento e supportata dalla politica monetaria della Bce consente di avere maggiore fiducia rispetto al fatto che l’inflazione torni verso i livelli nel mandato della Banca centrale europea». Il problema è uno solo, la tempistica: cosa dobbiamo attenderci davvero, quindi? Un annuncio a breve di revisione della forward guidance tanto ottimistico quanto sconnesso dalla realtà macro e l’ennesima politica di dissimulazione nei confronti dei mercati per vederne la reazione? Per ora abbiamo quella di ieri, la quale in scia alla possibile revisione anticipata della formulazione sui tassi, ha visto il cambio euro/dollaro riportarsi sopra 1,20 a 1,2015. Insomma, cosa ha in mente la Bce? E, soprattutto, al netto dei messaggi ufficiali, occorre preoccuparsi?
A mio modesto avviso, l’Eurotower sta compiendo una duplice funzione a livello globale e non certo solo europeo. Primo, sostenere l’azione l’azione della Fed di normalizzazione dei tassi. Secondo, garantire un dollaro svalutato al fine di scongiurare ciò che tutti temevano e, in parte, continuano a temere, ovvero un taper tantrum in stile Bernanke sui mercati emergenti scatenato dall’aumento del carico debitorio denominato in biglietti verdi di quei Paesi. Se ben guardate, i mercati equity di quelle nazioni – vedi il Far East – stanno invece vivendo giorni di gloria, con record battuti giorno dopo giorno: il tutto, grazie a un dollaro molto basso nelle valutazioni che non impatti con squilibri macro sui conti. Direte voi, la Bce sta mettendo a repentaglio la ripresa dell’eurozona – sfavorendo l’export con un euro forte – per mantenere in equilibrio il sistema? In parte temo di sì e dico temo perché una situazione simile significa essere arrivati al massimo dell’insostenibilità monetaria, di fatto obbligando le Banche centrali a giochi di iniezioni di denaro alternate a politiche non più finalizzate statutariamente alla stabilità dei prezzi, ma all’equilibrio fra competitor andati troppo oltre.
Cosa me lo fa pensare? Quanto vedete nel grafico qui sotto, ovvero la dimostrazione plastica di come il peggior calo da agosto 2016 dei prezzi alla produzione negli Usa a dicembre indichi un trend molto chiaro: sta riemergendo la deflazione. E siccome la Fed sta alzando i tassi, c’è un grosso problema, visto che da che mondo è mondo una contrazione del costo del denaro non è esattamente auspicabile in un contesto deflattivo, pena un cortocircuito letale per l’economia e le Borse. E da dove arriva quella deflazione? Esportata in massa dalla Cina e della sua sovraproduzione che cerca via di fuga nell’export verso mercati abbastanza grandi da riuscire ad assorbirla, opzione necessaria per giustificare agli stessi mercati dei dati macro abbastanza ottimistici da far passare in secondo piano il fatto che la Pboc stia iniettando liquidità come non ci fosse un domani nel sistema.
Cosa dobbiamo attenderci? Quanto vedete nel grafico finale ci offre una prima, sommaria risposta: come vi dico da tempo, il prossimo shock sarà geopolitico e non finanziario e la conferma ce l’ha offerta ieri l’aggiornamento dell’indicatore di rischio geopolitico di BlackRock (Bgri), attualmente ai massimi dall’annessione russa della Crimea del 2014, per l’esattezza siamo al picco del marzo 2015: nemmeno il combinato congiunto di elezione di Trump, Brexit e rischio Le Pen al voto francese aveva portato ondate di tensione simili. E per BlackRock quale potrebbe essere il rischio maggiore? Una maggiore aggressività commerciale Usa che sfoci in una vera e propria guerra di dumping e dazi su scala mondiale. E se così sarà, contro chi sarà se non la grande esportatrice di deflazione che oggi solo un equilibrio monetario artificiale sta evitando che faccia deragliare il “miracolo” economico di Trump? Attenzione, qui siamo oltre la fine del Qe. Molto oltre.