Habemus Grosse Koalition 2.0. È stato un parto lungo e doloroso, ma, alla fine, la Germania ha un governo. L’unico possibile, dopo l’abbaglio strumentale della cosiddetta “coalizione Giamaica”, abortita all’ultimo minuto per volontà dei falchi Liberali. E nulla, proprio nulla, è accaduto per caso. Nemmeno la falsa suspense di queste ultime ore. Chi ha vinto e chi ha perso nelle estenuanti trattative proseguite per tutta la notte fra giovedì e venerdì? Entrambi, come conviene, ma a ben guardare, le diverse e nette concessioni sul tema migranti – soprattutto il tetto dei 1000 ricongiungimenti famigliari – vedono la Spd più prona al compromesso, pur avendo vinto la battaglia delle casse mutue private.
Soddisfazione da parte di entrambi i leader, Angela Merkel e Martin Schulz, con la prima che si è limitata a dichiarare di aver «lavorato per un governo stabile», mentre il secondo si è sbilanciato parlando del raggiungimento «di un risultato eccezionale». Soddisfatti anche i “cugini” bavaresi della Merkel, quella Csu che per far capire come il tema migranti fosse diventato dirimente per il sì all’accordo, lo scorso weekend aveva invitato con tutti gli onori a Monaco il premier ungherese, Viktor Orban: «Si tratta di un risultato forte, la Csu ha negoziato bene. E questo ci ha aiuterà in Baviera quest’anno», ha affermato il candidato alla presidenza del Land, Markus Soeder.
I mercati hanno festeggiato, soprattutto l’euro che appena arrivata la notizia da Berlino è salito ai massimi dal dicembre 2014 sul dollaro a 1,2136. Insomma, la grande anomalia è stata eliminata dal tavolo. Certo, ora serve il via libera dai rispettivi congressi di partito, ma dopo la maratona di questi ultimi sei giorni si può parlare di una pura formalità. Ma alla base dell’accordo c’è qualcosa che travalica le politiche interne: sarà infatti l’asse con la Francia a livello europeo l’architrave del patto di coalizione, una conferma a quanto dichiarato giovedì da Emmanuel Macron durante la sua visita romana in compagnia di Paolo Gentiloni, occasione utilizzata non solo per lanciare un plateale endorsement al primo ministro italiano, ma anche per sottolineare la complementarietà del rapporto fra Parigi e Roma rispetto all’asse renano con Berlino, il quale resta riferimento unico dell’Ue. A cui, quindi, dovremo continuare a sottostare, nonostante i complimenti e le lodi dell’inquilino dell’Eliseo al nostro Paese e al governo che resterà in carica ancora fino a metà marzo.
E non stupisca la straordinaria contemporaneità fra la conferma di questa realtà di fatto e il suo manifestarsi concreto sotto gli occhi del ministro Carlo Calenda, visto il ritorno sia di Lufthansa che di Air France al tavolo delle contendenti per le spoglie di Alitalia. Colpa nostra e bravi loro a cercare di comprarsi gli assets più proficui con un tozzo di pane, visto che abbiamo lasciato che l’ex compagnia di bandiera fosse gestita come uno stipendificio e un bacino elettorale per anni e anni, facendo finta di non vedere bilanci disfunzionali e manager strapagati che li sottoscrivevano, salvo poi godersi liquidazioni faraoniche.
Ma, paradossalmente, non è questo ciò che di più interessante è arrivato ieri dalla Germania. Bensì, questo: «Non si possono mettere le economie della Germania e dell’Europa in dipendenza dalle condizioni imposte dagli Stati Uniti». E chi lo ha detto? Il ministro degli Esteri tedesco, Sigmar Gabriel, intervenendo dinanzi al Comitato Orientale dell’economia tedesca e ripreso dall’agenzia Reuters. «Credo che l’Europa non debba consentire l’attuazione della strategia statunitense, nell’ambito della quale affermano che siamo rivali economici e talvolta anche nemici… Non si può consentire che le garanzie giuridiche dell’economia tedesca vengano rispettate solo se vengono soddisfatte le condizioni americane di concorrenza». E ancora, per Gabriel «la Germania e l’Europa non devono dimenticare i propri interessi, ma la politica della Casa Bianca sotto lo slogan del presidente Trump, America first. è in contrasto con essi. Siamo per una concorrenza leale, ma non intendiamo sottometterci».
Gabriel ha inoltre criticato le nuove sanzioni anti-russe degli Stati Uniti, a causa delle quali potrebbero patire effetti ulteriormente negativi anche le società energetiche tedesche, sottolineando come sia necessario sfruttare l’azione delle Nazioni Unite per risolvere il conflitto tra Russia e Ucraina: «Personalmente, sono convinto che si raggiungerà attraverso la missione di pace delle Nazioni Unite». Stando al giudizio di Gabriel, il fatto che l’iniziativa sia stata proposta da Vladimir Putin non sminuisce affatto il suo valore e, anzi, occorre discutere le condizioni in dettaglio per far svolgere l’operazione, garantendo a Mosca di trarre un qualche beneficio che, in caso di successo, possa coincidere con l’indebolimento delle sanzioni contro la Russia: «Penso sia irrealistico pensare che le sanzioni si debbano cancellare completamente solo dopo la completa realizzazione degli accordi di Minsk, visto che le stesse misure afflittive sono state adottate gradualmente».
Ora, dubito che dopo dichiarazioni simili Gabriel sarà confermato a capo della diplomazia del nuovo esecutivo tedesco, stante anche l’asservimento della Spd ai diktat statunitensi, figlio dell’esperienza europea di Schulz in tal senso, ma il fatto che il ministro degli Esteri tedesco in carica arrivi a un atto di sfida simile conferma ciò che ho scritto ieri: siamo dinanzi a una guerra commerciale ai massimi livelli che Trump ha scatenato con la riforma fiscale e che adesso non potrà che peggiorare, a colpi di dumping, dazi e concorrenza sleale.
Non stupisca, dunque, in quest’ottica, la recrudescenza della campagna anti-russa orchestrata proprio dagli Usa, particolarmente orientata verso il rischio di ingerenze del Cremlino nei processi democratici europei, elezioni italiane in testa. E non passi sotto silenzio o sottovalutazione il fatto che, in risposta all’ennesimo report da barzelletta del Senato Usa in tal senso, giovedì Vladimir Putin abbia sentito il bisogno di intervenire in prima persona, bollando come bufale le accuse americane e ribadendo la volontà di Washington di minare i buoni rapporti diplomatici fra Mosca e Roma. Diplomatici e non solo. E lo stesso vale per l’Iran, con Trump pronto a rivedere il regime sanzionatorio contro Teheran in chiave di inasprimento a giorni, proprio mentre l’Europa si è appena espressa ufficialmente a difesa dell’accordo sul nucleare voluto da Obama. E mentre l’Italia ha ottenuto l’agognata firma sull’Accordo quadro di finanziamento fra Invitalia e due banche iraniane per un controvalore di garanzia da 5,7 miliardi finalizzato allo sblocco dei grandi progetti bilaterali nel campo dell’elettromeccanica, dell’engineering e dell’Oil and Gas.
Ricordate le parole di Gabriel e osservate con attenzione quali saranno le mosse del duo egemone Parigi-Berlino nei confronti di Washington e dei suoi diktat economici e commerciali: quelle mosse ci diranno davvero se la Merkel, ieri, ha vinto o perso. E con lei, l’Europa.