La Borsa vola, il risparmio affluisce copioso presso le società del risparmio gestito. L’occupazione, pur precaria, migliora. Eppure, l’Eurobarometro segnala che per l’80% degli italiani la congiuntura resta cattiva. È questo il quadro nel bel mezzo di una campagna elettorale ricca di promesse inverosimili, che sembra fatta apposta per generare nuove incertezze, all’apparenza incomprensibili visto che l’Europa sembra ormai avviata a lasciarsi l’eredità della crisi alle spalle. C’è un terreno, poi, in cui il Bel Paese resta inesorabilmente il fanalino di coda dell’Unione europea: l’andamento del mercato immobiliare. Il Bel Paese, infatti, è l’unica nazione dell’Ue dove i prezzi degli immobili continuano a calare alla faccia di tutti i proclami di ripresa.
La conferma arriva dai numeri di Eurostat. Nel corso del 2017 il miglioramento della congiuntura si è tradotto in un incremento medio dei prezzi di almeno il 5% (ma in due Paesi su tre il rialzo è più elevato), salvo che da noi, dove è proseguita la voragine che inghiotte il risultato di risparmi accumulati negli anni. Dal 2007, anno d’inizio della crisi, il valore reale degli immobili è sceso in media del 23%. Ovvero, in media ogni italiano ha perduto circa un quarto del patrimonio in mattoni, il bene più diffuso e comune, visto che il 72% degli italiani (contro poco più della metà dei tedeschi) abita in una casa di proprietà. È un’ipoteca tremenda, in grado di vanificare, assieme all’andamento del mercato del lavoro (e dei salari), qualsiasi ottimismo sulle possibilità di ripresa.
La crisi della casa, infatti, è all’origine dell’attività dell’edilizia, da sempre il settore che fa da traino alla ripresa dell’occupazione e di un indotto molto articolato, dalle piccole e medie imprese agli artigiani. Al contrario, lo scorso anno ha chiuso i battenti il 4,4% delle aziende del settore, meno del picco del 2013 (il 5,5%), ma assai di più del resto dell’industria (il 2,6%).
Dalla crisi del mattone, poi, dipende una buona parte dei 173 miliardi di sofferenze che gravano sul sistema bancario: il 42% del totale, in forte crescita rispetto al 29% del 2011. Il fenomeno si spiega con il fatto che le banche tendono a liberarsi prima dei debiti delle imprese, ma tengono duro sulle case, sperando che prima poi i prezzi recuperino. Proprio come fanno i padroni di casa, riluttanti ad accettare la realtà del calo dei prezzi. Il risultato è che, tra banche e privati, si sta accumulando uno stock di invenduto che peserà sul rilancio, anche se negli ultimi due anni il volume degli immobili venduti in asta è cresciuto del 25%.
È questa l’eredità da una crisi che non è stata, in questo caso, affrontata con misure adeguate. Altri Paesi, vedi Spagna o Irlanda (per non parlare del Portogallo), hanno subito stop anche più drammatici del mercato del mattone, ma hanno aperto le porte alle grandi società internazionali del settore, da anni quasi assenti dal mercato italiano. O favorito interventi per “scongelare” i beni immobiliari magari facendo ricorso alla leva del fisco che ogni anno, tra gabelle nazionali e locali, Tasi, Imu e prelievi sui rifiuti, incassa dagli italiani 50 miliardi. Non basta, come ormai fanno quasi tutti, agitare lo slogan “meno tasse” accoppiandolo con promesse più o meno folli. Semmai, la leva del fisco deve essere mirata per creare più spazio per la crescita.
Basta imitare l’esempio di Trump. Senza entrare nel merito della riforma fiscale americana, non si può non apprezzare la lezione di metodo: se vuoi un miglioramento delle condizioni dei lavoratori, devi agire prima di tutto sul fisco, liberare spazio di manovra per l’azienda, allentare la presa dello Stato sulle risorse delle imprese. Esattamente il contrario di quanto accade in Italia. Con qualsiasi governo. Il cittadino è suddito, l’impresa un esattore della Corona. E così le tute blu Usa di Fiat Chrysler incasseranno un bonus di 2.000 dollari. A quelle italiane non resta che attendere.