Ottima idea. Ma chi paga? Questo dovrebbe chiedere l’elettore agli esponenti politici di fronte a ognuna delle proposte di politica economica che stanno iniziando a emergere in vista delle elezioni. Si sono infatti aperte le cucine della campagna elettorale e i capocuochi dei partiti in competizione hanno già iniziato a sfornare sfavillanti ricette di spesa pubblica. Prima della chiusura della campagna saranno incluse in altrettanti voluminosi ricettari tra i quali il giorno del voto gli elettori saranno chiamati a scegliere. E il giorno dopo il voto, se vi sarà un cuoco vincitore netto, bisognerà andar a far la spesa per mettere assieme gli ingredienti richiesti dal suo ricettario. Chi la pagherà?
Il problema non sembrano porselo né gli chef, che immagino si ritengano dei creativi dell’alta cucina per i quali sarebbe poco dignitoso occuparsi di questi dettagli di basso livello, né tanti meno gli elettori/commensali che si aspettano di potersi sedere al tavolo per consumare i pasti per i quali hanno votato. Sin qui nulla di nuovo nella storia del nostro Paese, nel quale nell’ultimo mezzo secolo abbiamo messo assieme ben duemilatrecento miliardi di euro di conti di ristorante pagati prendendo soldi a prestito, quella cosa che va sotto il nome di debito pubblico e che sembra essere completamente ignorata nelle cucine dei nostri chef, il cui funzionamento futuro sarà garantito solo se i nostri creditori continueranno a finanziarci.
Possibile che i commensali/elettori credano ancora nell’esistenza di pasti gratis? In fondo non è indispensabile essere seguaci di Milton Friedman per avere consapevolezza del contrario. Tuttavia esistono due tipi di pasti: quelli pagati da chi li consuma e quelli pagati da chi non li consuma. Coloro che consumano pasti che non pagano e coloro che pagano pasti che non consumano fanno parte della stessa comunità nazionale, della stessa cittadinanza, e avrebbero il dovere di accordarsi su criteri equi di ripartizione dei vantaggi e degli oneri, cioè dei pasti e dei relativi conti. Questa divisione equa dei costi e dei benefici si chiama politica, quando funziona, e continua a chiamarsi politica anche quando non funziona. Ma ove funziona i paesi prosperano e ove non funziona i paesi declinano.
Che la politica sia l’arte di cooperare tra cittadini secondo giustizia non è una definizione nuova né recente, risalendo almeno a Platone. Tuttavia la democrazia, il peggior sistema di governo tranne tutti gli altri che sono stati sinora sperimentati, come disse Churchill in un famoso discorso alla Camera dei Comuni, ha un problema: chi governa dovrebbe perseguire il bene dell’intera comunità, ma, per governare, e continuare a farlo anche dopo le prossime elezioni, gli è sufficiente il consenso di una maggioranza dei cittadini, non della loro totalità (o quasi). Se i cittadini non sono coesi, se non sono interessati al bene dell’intera comunità ma solo a quello individuale o della loro corporazione, essi permettono ai politici di avere successo offrendo pasti gratis ai loro potenziali elettori e ponendo il conto a carico dei loro sicuri non elettori.
Si può allora dire che il populismo, o la demagogia, per usare una parola più antica, consista nel comperare il consenso dell’elettore (inteso come collettività nazionale) coi suoi stessi soldi o, in maniera più raffinata, nel comperare il consenso di Tizio (inteso come parte sociale) coi soldi di Caio e magari subito dopo il consenso di Caio coi soldi di Tizio, sfruttando le asimmetrie informative e l’incompetenza degli elettori. Il massimo del successo del politico si ha quando il consenso di Tizio e quello di Caio sono comperati coi soldi dei figli non ancora elettori di Tizio e Caio e magari anche con quelli dei loro nipoti non ancora nati. Lo strumento magico per ottenere questo risultato si chiama debito pubblico: il debito è la somma dei conti non pagati dei commensali di oggi e di ieri posti a carico delle generazioni di domani. Ma non è detto che queste generazioni vi saranno. Un possibile effetto è il declino demografico, riconducibile tanto all’ipotesi dell’assenza di eredi dei beneficiati dell’alta spesa pubblica in disavanzo quanto dal non potersi permettere figli in numero adeguato dei penalizzati dalla finanza pubblica. E non è detto che le nuove generazioni superstiti scelgano di restare nel Paese se saranno chiamate a consumare pasti frugali per poter pagare i conti dei loro predecessori. Perché mai non dovrebbero emigrare se all’estero possono conseguire pasti più ricchi pagando conti più sobri?
Si ha in conseguenza che l’assenza prolungata nel tempo di una comunità nazionale coesa e solidale porti dapprima a un declino economico e quindi a un declino anche sociale e persino demografico. Se non c’è anche la comunità, prima o poi rischiano di sparire anche gli individui. Ma come si può costruire una comunità senza una politica di livello elevato, l’esatto contrario della ricerca populistica del consenso alla vigilia delle elezioni? È quello che io chiamo teorema di impossibilità di Simonide. “Polis andra didaskei”, la città insegna all’uomo, sosteneva Simonide, poeta greco del VI secolo a.c., citato in Plutarco, e Paul Cartridge ne “Il pensiero politico nell’antica Grecia” così lo interpreta: “La città insegna all’uomo a essere cittadino”. Tuttavia non può farlo una città che non sia già formata da cittadini. Infatti chi è che, nella città odierna che è lo Stato, insegna la cittadinanza? La comunità politica stessa, dal basso, oppure i politici, dall’alto? Una comunità politica di cittadini, interessata al bene comune, eleggerebbe certamente uomini politici interessati al bene comune. E a loro volta uomini politici interessati al bene comune coltiverebbero il senso civico dei loro cittadini, in un circolo virtuoso autorigenerantesi. Ma è invece impossibile per una collettività non interessata al bene comune eleggere consapevolmente politici che lo siano, potrebbe farlo solo per sbaglio, e a loro volta politici non interessati al bene comune non saranno in grado di coltivare cittadini autentici. In questo consiste l’impossibilità, quello che sopra era un circolo virtuoso qui diventa un circolo vizioso.
Credo che l’attuale situazione di crisi permanente e di declino del Paese abbia radici storiche molto distanti nel tempo, che l’Italia sconti il vizio d’origine della sua unità: quello di aver avuto lo Stato prima dei cittadini e di non essere riuscita a costruirli in tutta la restante parte sin qui trascorsa della sua storia. Lo ha spiegato molto bene alcuni anni fa lo storico Roberto Vivarelli, in un libricino commemorativo in occasione dei 150 anni dell’unità del Paese, “Italia 1861” (Il Mulino): “…una nazione moderna corrisponde a una comunità di cittadini. Il Risorgimento dette effettivamente vita ad uno stato nazionale formalmente moderno, perché retto da libere istituzioni. Ma dietro quello stato una nazione come comunità di cittadini non c’era, né la classe dirigente del tempo si propose di formarla… In effetti, in luogo di una nazione come comunità di cittadini, il che significa una comunità aperta, la società italiana ha mantenuto e sempre più consolidato la struttura di un ordine corporativo, cioè di una società chiusa, divisa in un largo numero di fazioni, forme associative di natura diversa, dalla famiglia alle lobbies, dagli ordini professionali ai sindacati e ai partiti, ciascuna volta alla difesa dei propri interessi particolari e perciò incapace, poco importa se per ingenuità o per malizia, di allargare il proprio orizzonte e riconoscere, insieme, i diritti altrui e le prioritarie esigenze di un interesse generale”.
Come può una polis siffatta insegnare la cittadinanza ai suoi membri? E come può sperare di eleggere politici che perseguano “le prioritarie esigenze di un interesse generale” anziché il conseguimento del consenso di un numero sufficientemente elevato di corporazioni attraverso la promessa del soddisfacimento dei loro interessi più particolari? Come di consueto la somma delle fette di torta promesse alle diverse categorie eccederà di gran lunga la dimensione della torta che il Paese è in grado di cucinare, anzi quanto più grandi e numerose sono le fette promesse senza richiedere che ognuno se le cucini per suo conto, tanto più piccola sarà la torta effettivamente realizzata.
La condizione attuale dell’Italia è ben descritta da una scena del film “Invito a cena con delitto”, tratto da una commedia di Neil Simon, e da due suoi personaggi: la cuoca sordomuta e il maggiordomo cieco. La cuoca sordomuta è il settore produttivo privato che non ha capito che doveva preparare un certo pasto, non si è preparato e non lo ha fatto. Invece il maggiordomo ceco è la classe politica la quale cerca di servire ai commensali di una tavola elegantemente imbandita il cibo che non è stato cucinato. Tuttavia con due non piccole differenze: la prima è che la classe politica è ben consapevole che la pentola è vuota e la seconda è che essa non ha certo la classe e lo stile di Sir Alec Guinness.