Altri colleghi su questa testata hanno sottolineato come l’accordo raggiunto nella Repubblica Federale per dare vita a una Grande Coalizione è una buona notizia per la Germania e per l’Unione europea, ma nasconde, al tempo stesso, trappole e sfide per l’Italia (uno degli “anelli deboli” dell’Ue). Le trappole sono quelle di un programma di governo – quello tedesco – imperniato sulla riduzione simultanea di imposte e di debito pubblico (realisticamente fattibile, dato che al di là delle Alpi e del Reno in questi lustri sono stati accumulati avanzi attivi di bilancio, della bilancia dei pagamenti e della bilancia commerciale). Con una fattibile riduzione di imposte e di debito, la Germania si appresta a correre ancora di più del 2,2-2,5% degli ultimi tempi e avrà poca simpatia per chi è rimasto indietro. Ora dagli ammonimenti si passa alla sfida? Il governo che verrà istituito sulla base dei risultati delle elezioni del 4 marzo sarà in grado di fare uscire il Paese dalla “stagnazione secolare” che ci attaglia da decenni? E con quali politiche economiche?
Due autorevoli economisti australiani (Grace Taylor e Rod Tyers) ricordano, in un saggio appena apparso su Economic Record che il termine “stagnazione secolare” è stato riesumato di recente da Lawrence (Larry) Summers per indicare come l’integrazione economica internazionale sposta la crescita verso le economie emergenti e che quelle aree economiche e quei Paesi che meno si sono adattati a quello che è “un nuovo ordine internazionale” sono destinati a soffrire di più. L’Italia è in questo gruppo anche a ragione dell’invecchiamento della popolazione, della scarsa natalità, della frammentazione del sistema produttivo e dalla lenta accumulazione di capitale umano – tutti temi che vanno oltre il consolidamento della finanza pubblica e che richiedono un lungo periodo di stabilità per effettuare le necessarie e improcrastinabili riforme della struttura dell’economia.
Un lavoro recentissimo della Banca d’Italia (ne sono autori Claire Giordano, Gianni Toniolo e Francesco Zollino) esamina le tendenze e prospettive a lungo termine della produttività italiana, forse l’indicatore più eloquente in materia di “stagnazione secolare”. Sulla base di dati aggiornati sul valore aggiunto e sul lavoro dal 1861 al 2016, l’analisi mostra che l’Italia ha avuto una bassa crescita della produttività dall’unificazione all’età giolittiana e agli anni Venti. Successivamente c’è stato un forte processo di rilancio rispetto ai Paesi leader in progresso tecnologico in cui è stato effettuato un forte trasferimento del fattore lavoro dall’agricoltura all’industria e ai servizi. La crescita della produttività è durata sino all’inizio degli anni Settanta, com’è avvenuto in altri Paesi, ma il rallentamento, prima, e la stagnazione, poi, della produttività dall’inizio degli anni Novanta non è dovuta unicamente alla crescita del settore dei servizi a bassa tecnologia (in alcuni anni l’evoluzione della produttività del lavoro è stata addirittura negativa), ma soprattutto al declino dell’accumulazione di capitale. Dal 2013, c’è qualche segnale di leggero miglioramento della produttività. Occorre incoraggiarlo con politiche appropriate.
Un altro studio recente di Bankitalia (ne sono autori Pietro Cova, Patrizio Pagano, Alessandro Notarpiertro e Massimiliano Pisani) scava nei lineamenti di queste politiche: enfasi su ricerca, capitale umano e infrastruttura e una politica monetaria “accomodante”. Il consolidamento della finanza pubblica diventa, in questo contesto, possibile.
A questo punto occorre chiedersi sino a qual punto le forze politiche che si contendono i voti in vista delle elezioni hanno formulato programmi di livello volti all’aumento della produttività (e al consolidamento della finanza pubblica che ne è precondizione).