Quanta inutile retorica attorno all’ultima sparata di Donald Trump. Intendiamoci, nessuna sottovalutazione o giustificazione del fatto che un presidente degli Stati Uniti possa lasciarsi andare a dichiarazioni come quelle sui cosiddetti “Paesi cesso” in un contesto ufficiale, ma, come vi dico sempre, occorre stare attenti a due basi di valutazione fondamentali: la prospettiva da cui vanno letti certi eventi e il principio del cui prodest. Vediamo un po’, non tralasciando poi un altro evento del fine settimana che ci aiuta a capire in quale società siamo precipitati, il più classico dei panopticon.



Dunque, in che contesto è maturata la sventurata frase del Presidente? Una riunione del Daca, ovvero relativa alla discussione sui cosiddetti “dreamers” i figli di immigrati clandestini cui Oabama aveva garantito una sorta di “lasciapassare” e di cui Trump vuole invece rivedere status e diritti, esattamente come per i profughi haitiani e salvadoregni. Perché è importante quel contesto? Perché mentre il mondo si indigna per quella parolaccia, dimenticando il sacro ammonimento di Rino Formica riguardo la natura stessa della politica, passa in secondo piano il fatto che se non si troverà l’accordo su questa materia, venerdì negli Usa scatterà lo shutdown governativo. Ovvero, il governo non disporrà più dei fondi per finanziare i propri servizi e sarà costretto a “calare la saracinesca”, un’eventualità dalle conseguenze tutt’altro che semplici.



E i numeri al Congresso impongono a Trump la ricerca di un compromesso, parola che non pare fra le più utilizzate nel vocabolario del Presidente, il quale ha infatti gettato nel calderone della discussione gli stipendi dei militari, accusando i Democratici di voler affamare, con le loro proposte unicamente interessate ai migranti, niente meno che le Forze armate, un totem per gli statunitensi. Attenzione, shutdown non significa affatto default degli Usa, né fine del mondo, visto che è già accaduto diciassette volte. La battaglia dello shutdown riguarda l’approvazione di un piano per spese future, mentre il cosiddetto debt cealing è un altro problema che Washington deve affrontare ma non nell’imminenza. Insomma, ancora una volta il New York Times ha gettato nell’agone politico globale il gossip scandalistico per smuovere le acque e portare l’attenzione nei pressi del vero argomento, priorizzandolo, ma senza darlo in pasto direttamente all’opinione pubblica, per la quale l’economia e la politica Usa devono restare due punti di riferimento senza macchia a livello globale: è come l’inflazione del Qe, l’obiettivo è attorno al 2%, formula che permette parecchie acrobazie e alibi.



Come vi dicevo, contestualmente è accaduto qualcosa di simile: Facebook ha comunicato il cambio di algoritmo del proprio newsfeed, il flusso di informazioni che vediamo sulla nostra pagina personale. Meno pubblicità e news e più post di amici e parenti, il tutto per “umanizzare” un po’ il social network dopo le recenti polemiche da parte di suoi stessi fondatori riguardo il carattere alienante e desocializzante del sito. Ma, attenzione, nelle intenzioni del social c’è anche la volontà di limitare l’afflusso di fake news, il nemico numero uno, dopo che lo scorso novembre sia Facebook che Twitter ammisero di aver dormito relativamente agli spazi pubblicitari e ai falsi account della cosiddetta “propaganda russa”, permettendo così alle diramazioni del Cremlino di raggiungere potenzialmente 120 milioni di americani prima delle presidenziali 2016.

Insomma, Facebook ci “nasconde” le notizie, depriorizzandole ma lo fa per il nostro bene. Boldriniano, non c’è che dire. A cosa ci troviamo quindi di fronte, nel caso dello scoop del New York Times sui “Paesi-cesso”, così come in quello della rivoluzione comunicativa di Facebook? Censura e veicolazione. Di cosa, dello shutdown governativo che potrebbe legare le mani alla politica economica di Trump, di fatto il motore del mondo, stando ai media di questo periodo? In parte, ma soprattutto quanto vedete in questo grafico: ovvero, il fatto che in America è in atto una vera propria corsa all’acquisto di BitCoin attraverso l’uso di carte di credito e debito.

Parliamo di clientela puramente retail, parliamo di gente come voi e me che si carica ulteriormente di debito (oltre a quello scolastico, per l’acquisto di auto e il credito al consumo, già a livelli record e con forti substrati subprime) per lanciarsi nel grande Klondike della criptovaluta, sperando di diventare milionario in pochi giorni: che dite, non c’è rischio vero, tanto BitCoin continuerà solo a salire nella sua valutazione, vero? D’altronde, se c’è una cosa di cui abbiamo avuto prova è proprio la stabilità e l’assenza di volatilità del suo trading, vero? In effetti, venerdì le voci di bando in Sud Corea lo hanno fatto crollare, salvo poi vederlo risorgere come l’Araba fenice per l’ennesima volta.

Bene, l’America profonda e senza esperienza finanziaria sta giocandosi i risparmi – sotto forma di indebitamento – sulla criptovaluta: non sentite puzza di 2007, ma con la miccia della bomba a orologeria innescata molto più corta di quella del mercato real estate, il quale può facilmente andare in bolla, ma è fisico e ha un suo valore intrinseco? Al netto delle cartolarizzazioni da galera (e, almeno, negli Usa qualcuno ci è finito), al fondo della crisi sono rimaste case, pignorate quanto volete, ma capaci di ricreare un valore di mercato reale e trattabile: cosa resterà di BitCoin, una volta esplosa la bolla? Certamente non i risparmi degli americani medi che hanno votato Trump e che ora, intontiti da media che non parlano altro che di economia che galoppa come un purosangue, si fidano ciecamente di qualsiasi cosa possa garantire l’illusione del benessere e dell’arricchimento facile e veloce. Ma sapete com’è, Facebook – il quale rappresenta a livello globale il mezzo di informazione di massa più diffuso ormai – farà una bella cernita di cosa dovete leggere e cosa no, mentre il New York Times e i suoi accoliti mainstream e autorevoli vi faranno indignare con le parolacce di Trump e il suo eccessivo utilizzo di denaro per tappare la bocca ad attricette e pornostar, piuttosto che raccontarvi cosa sta accadendo davvero in America e alle pendici di BitCoin e della follia legata alle criptovalute.

Il perché è presto detto. Primo, se vedi arrivare l’ostacolo, tendi a spostarti. E non è ancora ora di abbandonare la criptofollia collettiva, la quale invece sta nascendo solo ora come fenomeno retail e di massa. Secondo, l’effetto sorpresa in grande per tramutare BitCoin e l’universo cripto nel capro espiatorio della prossima crisi finanziaria globale, capace oltretutto di coprire anche diramazioni geopolitiche, viste le dichiarazioni di Stati e regolatori al riguardo, le minacce/intenzioni di molti governi di crearsi la propria criptovaluta sovrana, non ultima la Russia di Putin e le accuse verso la Corea del Nord di utilizzare l’universo cripto per bypassare le sanzioni internazionali. Ancora indignati per i “Paesi cesso”?