Secondo il commissario agli Affari economici della Commissione europea, Pierre Moscovici, il voto italiano sarebbe un “rischio politico per l’Unione europea”. Il commissario si è anche espresso sulle proposte di politica economica uscite durante la campagna elettorale: “Il tetto del 3% (sul deficit/Pil) ha un senso, questo senso è evitare che il debito slitti ulteriormente e il debito italiano non può slittare ulteriormente”; e ancora: “Sono un uomo di sinistra, ridurre il deficit significa combattere il debito e combattere il debito significa permettere la crescita e la qualità della spesa pubblica”. La reazione a caldo a queste dichiarazioni è che se queste sono le posizioni degli uomini di sinistra si capisce come mai in Europa e negli Usa gli impresentabili di destra stiano sbaragliando la concorrenza. Lo diciamo senza nessun compiacimento, ma con tanta preoccupazione.



Dal punto di vista dell’Unione europea l’unico rischio che possono porre le elezioni italiane è la vittoria di un fronte anti-euro con la forza necessaria per mettere in crisi l’appartenenza all’Unione europea dell’Italia. Oppure di un fronte che abbia la capacità di imporre un cambio alle politiche europee. Questo rischio prescinde, in un certo senso, dalle idee politiche di chi si fa carico di queste battaglie. La divisione “destra-sinistra” è successiva e indipendente da questa opzione. Un partito di “sinistra” che propone con forza la fine dell’austerità o la rottura dell’euro è un rischio esattamente come un partito di “destra”. Il rischio posto da Marine Le Pen è lo stesso rischio che ha posto in Grecia Syriza, prima che fosse ridotta o si riducesse volontariamente ai più miti consigli dell’establishment europeo.



Cosa sia l’Europa oggi ce lo ha ricordato ieri Moscovici. Ci ha ricordato che l’austerity continua a essere la politica economica imposta alla periferia. È una politica economica che non ha riscontri né negli Stati Uniti, né in Giappone, né in Cina, né in Russia, né in Gran Bretagna. Tutte aree del globo che sono cresciute più dell’Unione europea e che, soprattutto, non hanno sacche dove la disoccupazione sfonda il 20%. Le macro-aree appena citate hanno risposto alla crisi con un’esplosione del debito pubblico che potesse fermare la distruzione dell’economia sottostante e, di nuovo soprattutto, del mercato del lavoro. L’austerity ha come effetto misurabile la depressione e il peggioramento dei saldi di finanza pubblica. Ma è una politica economica necessaria per un’area, l’Europa, che avendo basato tutto sulle esportazioni non può permettersi un rialzo dei salari e per un establishment europeo, franco-tedesco, che con l’austerity ha rapinato la periferia di peso politico e economico. Gli acquirenti tedeschi delle privatizzazioni greche o quelli francesi di gran parte del sistema Paese italiano sono la controprova.



Moscovici però ci ha ricorda un’altra cosa. E cioè che in Europa qualcuno è più uguale degli altri. Il debito francese è su una traiettoria insostenibile più di quello italiano. Il debito pubblico italiano con due crisi è salito dal 102,4% del 2008 al 132,6% del 2016; quello francese, senza la crisi del 2011, dal 68% al 96%. Sono 30 punti di Pil bruciati per entrambi, ma in Francia, ricordiamo, non ci sono stati gli effetti devastanti della crisi imposta all’Italia dall’Europa nel 2011 e non ci sono stati gli effetti di una colonizzazione economica che in molti casi ha prodotto migliaia di posti di lavoro persi. Il deficit su Pil della Francia ha sforato più volte, ma l’Europa ha chiuso un occhio e tre quarti.

Parliamo di deficit/Pil come se fosse il teorema di Pitagora. Non esiste nessuna legge che dica che 2,9% sia giusto e 3,1% sbagliato. E infatti non ci sono prove che un aumento del debito abbia effetti negativi sulla crescita. Se fosse così, oggi gli Stati Uniti sarebbero falliti. Ma invece hanno la Fed che continua a stampare. Sicuramente imporre a un Paese in crisi con la disoccupazione oltre il 10% il rispetto di tetti pensati quando la disoccupazione era al 5% e non c’era stata la crisi peggiore dal ’29 è folle; oppure molto sospetto.

Ma la vera questione è un’altra. Per questa Europa tutte le elezioni sono un rischio nella misura in cui possono avere come esito il cambiamento dell’assetto europeo che deve rimanere immutato soprattutto per chi lo conduce e ne incassa i benefici: il duo franco-tedesco e la burocrazia europea. Ma a noi andrebbe benissimo se le elezioni italiane non contassero più niente; anzi, non vedremmo l’ora che non contassero più niente. A una sola condizione: che quelle europee contino qualcosa. Con le elezioni europee non possiamo fare niente per evitare che la gente in Grecia muoia di fame e l’Europa abbia il volto delle imprese tedesche che comprano a prezzi stracciati porti e aeroporti. Vorremmo solo sapere quale istituzione democratica europea possiamo influenzare per fare in modo che in Spagna o in Portogallo, o in Calabria, la disoccupazione scenda sotto il 20%. Se le loro elezioni non contano più niente perché la politica economica e le regole si decidono in Europa secondo criteri immutabili come il deficit al 3%, allora non possono avere la colpa di non essere riusciti a uscire dalla crisi. Chi parla di ripresa spagnola, con la disoccupazione al 17%, dovrebbe farsi vedere da qualcuno bravo. Ci viene il dubbio che l’austerity sia un’opzione scelta consapevolmente e proprio per i suoi effetti sugli equilibri politico-economici interni all’Europa che chi ha oggi il potere comprensibilmente non vuole cambiare. E non cambierà mai fino a che il trasferimento di potere da perdenti a vincitori non sia completo.

Allora a Moscovici vorremmo chiedere: le elezioni italiane sono un rischio per chi? Per l’Italia? per l’Europa? O per il dominio franco-tedesco? Ci piacerebbe che le elezioni italiane fossero un rischio vero se potessero cambiare una traiettoria, europea, che produce disuguaglianze mostruose e disoccupati. Chissà se per Moscovici le priorità sono queste o la salvaguardia di un assetto che produce chiaramente dei vincitori e degli sconfitti.