Per ora, la logica del bastone e della carota vede prevalere quest’ultima, ma, come vi dico da tempo, il messaggio è arrivato forte e chiaro: ora che in Germania, salvo colpi di scena epocali di cui parleremo dopo e che cambierebbero del tutto il volto dell’Ue, si è arrivati a un compromesso sul nuovo governo e l’agenda Macron può partire, il tempo della ricreazione per l’Italia è finito. Ma c’è un punto fondamentale: tutti – e dico tutti – puntano su Paolo Gentiloni per il dopo voto, un qualcosa che apre scenari decisamente interessanti.
Ma partiamo dal principio, ovvero dalla prima interferenza – alla faccia del Cremlino e del Russiagate – di Bruxelles nella nostra campagna elettorale. E se prima parlavo di carota è perché a farla si è deciso che, in prima istanza, fosse Pierre Moscovici, il “poliziotto buono” dell’Europa, quello della mediazione a nostro favore con i meno malleabili falchi del Nord alla Katainen. Nel corso di una conferenza stampa a Parigi, ieri infatti Moscovici ha parlato. Molto. «Credo di poter dire che siamo usciti dall’era delle grandi crisi europee. L’Europa ha ripreso colore, a crescita europea supera il 2%, più degli Stati Uniti. L’Europa può contare su una crescita solida e duratura». Ma dopo l’ottimismo di maniera e dopo le parole ufficiali, ecco che in conferenza stampa Moscovici – debitamente stimolato dai giornalisti esteri – ha messo nel mirino l’Italia, tornando sì evidenziare l’alto livello del nostro debito pubblico, ma anche sottolineando come questo «comincia a scendere… Sull’Italia cito sempre Galileo: “Eppur si muove…”. Possiamo avere fiducia nella ripresa dell’Italia, anche se il principale motivo di preoccupazione è l’incertezza politica per le elezioni del 4 marzo. Quello italiano è uno scrutinio che seguo da molto vicino: oggi è difficile immaginare quale coalizione uscirà dal voto, con quali ambizioni europee, anche se con l’approssimarsi delle elezioni tutti i partiti rivedono il loro posizionamento rispetto all’euro. In un contesto in cui la situazione economica dell’Italia non è certamente la migliore al livello europeo, felice chi potrà dirlo…». Magari il popolo italiano, verrebbe da dire.
Ma ecco che, interpellato, Moscovici cede alla diplomazia e alla terzietà e lancia il siluro: «La proposta di Luigi Di Maio di sfondare il tetto del 3% nel rapporto tra deficit e Pil è un controsenso assoluto. Sul piano economico – ha aggiunto – questa riflessione non è pertinente: il tetto del 3% ha un senso molto preciso, quello di evitare che il debito non slitti ulteriormente. Ridurre il deficit significa combattere il debito e combattere il debito significa rilanciare la crescita». E ancora: «Quello che dico ora l’ho già detto a dei partiti politici in Francia che pensavano che oltre il 3% si creasse la crescita: se fosse vero si saprebbe, conosco Paesi che sono in procedura per deficit eccessivo ed hanno una crescita debole… conosco Paesi in eccedenza di bilancio e che hanno crescita forte. Se chiedessi quale Paese è in procedura per deficit eccessivo con un tasso di disoccupazione al 10% e quale Paese ha 0% e piena occupazione, citando la Spagna e la Germania, in modo intuitivo, ad ascoltare il signor Di Maio, si risponderebbe la Spagna. E invece non è vero, è esattamente il contrario… Sono un uomo di sinistra – ha concluso – ridurre il deficit significa combattere il debito e combattere il debito significa permettere la crescita e la qualità della spesa pubblica. Più sei indebitato, più sei incastrato».
Pd e Forza Italia, sentitamente ringraziano. Ma al di là della valutazione sulla sottile linea che divide giudizio personale e ingerenza istituzionale, veniamo alla parte che mi interessa di più del discorso che le parole di Moscovici hanno innescato: con riguardo a quanto sta accadendo a livello internazionale, l’Ue ci è o ci fa? Perché ieri è uscito un dato davvero interessante, un dato che parla di carne e sangue per la nostra economia e le nostre imprese: continua, infatti, a crescere il trend positivo dell’interscambio fra Russia e Italia nel corso del 2017.
L’ultimo bollettino Ice, elaborato sulla base dei dati forniti dalle dogane russe, certifica a ottobre 2017 un incremento dell’import di prodotti italiani del 27,9%. Ovvero, un dato superiore alla media dell’Ue a 28 (+22,3%) e ai principali competitor europei dell’Italia (dalla Germania si registra un +22,4%, dalla Polonia un +24,7% e dalla Francia un modesto +6,6%). L’Italia si pone dunque come il quinto Paese fornitore della Russia dietro a Cina, Germania, Stati Uniti e Bielorussia. In particolare, si registra l’ottima performance della meccanica (+38,4% a fronte di un -21,8% registrato nel 2016). Bene anche i semilavorati (+20,4%) e l’agroalimentare (+27,4%, nonostante le contro-sanzioni). Anche l’export russo verso l’Italia aumenta segnando un netto +11,9%. La parte del leone tocca agli idrocarburi, che a ottobre 2017 viaggiano a +18,1% rispetto al -51,3% del 2016. Bene anche legname (+21,5%) e materie plastiche (+43%).
E cosa sta accadendo in contemporanea a questo dato? Due cose. Primo, nel pieno dell’acuirsi della crisi libica, sostanziatosi lunedì con lo strano attacco di un gruppo estremista “amico” all’aeroporto di Tripoli, si è tenuta una lunga telefonata in merito fra Paolo Gentiloni e Vladimir Putin, durante la quale è emersa la volontà del presidente russo per una forte cooperazione italo-russa nel tentativo di risoluzione della crisi: come dire, il Cremlino offre a Roma la possibilità di non vedersi scavalcata da Macron in terra libica ed evitare un 2011 versione 2.0. Secondo, sempre ieri s è scoperto che Washington varerà le nuove sanzioni anti-russe il 29 gennaio, almeno stando alle parole dell’ambasciatore degli Stati Uniti in Russia, Jon Huntsman, riferite dall’agenzia alla Tass e aggiungendo che al momento è troppo presto per dire quante singole persone saranno colpite, ma che «si è lavorato molto duramente sul Caatsa, la legge varata dagli Usa lo scorso agosto per rafforzare le sanzioni a Russia, Corea del Nord e Iran… La data può essere flessibile, ma ciò avrà un impatto sulle relazioni russo-americane sul breve e lungo termine». E l’Ue, che finora in tal senso ha seguito pedissequamente le mosse Usa, cosa farà? E l’Italia come si muoverà, tutelerà il rifiorire delle relazioni italo-russe in politica, economia e diplomazia o si accoderà al treno di Macron e Bruxelles?
Ed ecco, per finire, la variabile rivoluzionaria tedesca di cui vi parlavo a inizio articolo e che potrebbe scompaginare le carte sul tavolo, con costi accessori non da poco. Alla vigilia del lancio del lancio del future petrolifero denominato in yuan atteso per fine mese, esattamente come le nuove sanzioni Usa contro il grande produttore russo, la Bundesbank ha infatti annunciato che includerà lo stesso yuan cinese nelle sue riserve valutarie, dando così un’ulteriore spinta al piano di Pechino di internazionalizzare la sua moneta e mandando la valuta del Dragone sui massimi da due anni. La potente Banca centrale tedesca – di fatto azionista di maggioranza della Bce e di Target2 – ha reso nota la decisione presa in luglio dal suo board di investire in renminbi, pur non specificando quando inizierà a farlo e quale sarà la portate degli acquisti: «La decisione di accettare il renminbi fa parte di una strategia di diversificazione di lungo termine e riflette il ruolo crescente della valuta cinese nel sistema finanziario mondiale», ha dichiarato all’agenzia Afp il membro del board, Joachim Wuermeling.
Non è così, in realtà, è una vera rivoluzione. La cui portata sarà quantificabile in base alla risposta di Washington, la quale pare aver contestualmente fatto capire che a breve partirà anche un pressing senza precedenti verso l’Ue relativamente all’accordo sul nucleare iraniano: basta medietà, o con le sanzioni degli Usa o lungo la strada di mantenimento dell’accordo con Teheran, via ovviamente preferita dalla Russia. Con tutte le conseguenze del caso: come vi ho detto, la prossima crisi sarà geopolitica e commerciale, prima che finanziaria. E pare proprio che ci siamo, il detonatore – ribadisco – saranno la Polonia e più in generale i quattro di Visegrad. L’unica certezza? Sia Bruxelles-Parigi, di fatto il proxy di Washington in Europa che Mosca-Teheran-Pechino vorrebbero evitare instabilità e una prosecuzione del governo Gentiloni nei rapporti bilaterali con il nostro Paese. Cosa farà a questo punto l’Italia? Ah, quanto avremmo bisogno di poter forti seri, grand commiss di Stato e un Deep State decente…