In Gran Bretagna la premier Theresa May ha istituito un ministero per combattere la solitudine, ma “credo che non possa fare più di tanto, nonostante le buone intenzioni di chi ha proposto questa figura. Il fatto che si sia pensato a un ministero ad hoc contro la più triste realtà della vita moderna la dice lunga su come oggi stia involvendo la situazione sociale, non solo in Gran Bretagna, e ha il merito di portare il problema nell’agenda politica e, se ben gestito, di poter promuovere iniziative utili a contenere il fenomeno”. Ma, come è accaduto in Italia, la solitudine è il frutto di un sistematico abbandono della famiglia a se stessa. Anche in questa campagna elettorale carica di promesse mirabolanti tutti parlano, e promettono, di tutto, ma come al solito sul palcoscenico della politica manca un protagonista: è la famiglia, la grande assente. Eppure – ricorda Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano – “è possibile aiutare le famiglie, che sono un soggetto economico e sociale importante per il Paese e per il suo futuro, anche con interventi quasi a costo zero. Infatti non si tratta tanto di dare dei soldi, quanto di mettere in atto interventi in grado di orientare le risorse esistenti all’interno però di un progetto organico e non estemporaneo, valorizzando per esempio il patrimonio pubblico e attuando una seria lotta all’evasione fiscale per poter così finanziare chi è veramente in difficoltà”.
Professore, perché in Italia la famiglia, da decenni, è la grande assente nelle agende dei partiti? Perché non è mai il momento giusto per parlarne e soprattutto per intervenire con sostegni adeguati?
Nel nostro Paese la famiglia è dimenticata, nonostante i due soggetti sociali ed economici centrali siano le imprese e, appunto, le famiglie. Le famiglie sono un interesse complessivo del Paese, sono la spina dorsale dell’economia, eppure non sono mai state considerate adeguatamente e seriamente in un contesto organico. Storicamente le élite di potere non riconoscono nella famiglia un interlocutore chiaro. In più, in Italia parlare di famiglia ha sempre riportato in modo consapevole al Ventennio fascista. E ciò ha fatto scattare una sorta di damnatio memoriae, ha gettato un’ombra sull’istituto della famiglia. E pensare che nel dibattito costituente – e lo so perché ho letto tutte le carte in proposito – sulla famiglia sono state spese parole di altissimo livello che avrebbero dovuto cancellare questa immagine negativa.
Siamo molto indietro rispetto agli altri Paesi europei?
In Francia le politiche per la natalità, pur non generando impatti eclatanti, sono comunque entrate nel dibattito e nel sistema economico, tanto che oggi il welfare famigliare è uno dei pilastri più robusti. In Italia invece si è imboccata una strada diversa. Anzi, come è successo a metà degli anni Novanta, alle famiglie sono state scippate risorse, per 10 miliardi annui ai valori attuali, della Cassa unica per gli assegni familiari, utilizzati per altri fini.
È proprio a causa di questo retroterra di diffidenza che in Italia le politiche per la famiglia si limitano a una serie disorganica di bonus? Le agevolazioni possono bastare?
Frammentarietà ed estemporaneità degli interventi sono il tratto caratteristico dell’interesse politico per la famiglia, che diventa oggetto di attenzione quando capita e quando è elettoralmente utile: così si fanno interventi spot, che durano un anno o due, e poi di nuovo la famiglia sparisce dai radar. Non abbiamo un filo conduttore: in Francia anche quando cambiano i governi le politiche familiari non mutano. Da noi si guarda alla spesa pubblica cash, mentre siamo indietro sugli investimenti, per esempio negli asili nido.
Si parla da anni di fattore Famiglia o di Quoziente familiare, ma in concreto non si è visto nulla. Colpa anche, o solo, del fatto che costano troppo?
Fattore Famiglia o Quoziente familiare non sono costi eccessivi, sono misure di equità: è normale che una coppia con figli, a parità di reddito, debba far fronte a maggiori spese rispetto a una coppia senza figli. O si ritiene che un figlio sia come un frigorifero nuovo, cioè “l’hai voluto, sono affari tuoi”, oppure si riconosce che stiamo parlando del futuro del nostro Paese. La mercificazione dei figli sottende l’idea che strumenti come Fattore famiglia o Quoziente familiare siano dei vincoli. Invece ci sono studi che indicano una strada di equità e di sostenibilità: non si tratta di premiare, ma di mettere sullo stesso piano esigenze e disponibilità diverse. Anche la Svezia sta riscoprendo la famiglia, mentre noi non ci rendiamo conto – ed è un boomerang drammatico – di quanto abbiamo lasciato andare alla deriva la famiglia. Oggi viviamo una grave situazione di durezza umana: crollo demografico, solitudini, assenza di relazioni vive. E non basta certo lo strumento dell’Isee, l’unica arma messa in campo, perché è diventato una tagliola, un mezzo per tagliare fuori, più che per sostenere chi è in difficoltà.
Alla luce di queste riflessioni e tenendo conto i vincoli di finanza pubblica, realisticamente oggi che cosa si dovrebbe o potrebbe fare per sostenere la famiglia?
Innanzitutto, di questi tempi, porterei in primo piano una soluzione per quella punta dell’iceberg degli indigenti che sono i senza casa. Esistono, non si possono non vedere, non si possono non aiutare. E sempre restando in tema di aiuti per una casa dignitosa, occorre anche maggiore attenzione alle tariffe, accompagnata da programmi di sostegno temporaneo ma diretto per chi fa fatica a pagare affitti e spese per l’abitazione, come succede in Germania e in Francia. In terzo luogo, bisogna sanare lo “scarto” di intere aree: le periferie. I casi di Napoli sono esemplari: nelle baby gang si ritrovano i figli della recessione. Dunque, bisogna avviare una gestione intelligente del patrimonio pubblico, sanzionando gli abusi.
Altre misure praticabili?
Una seria lotta all’evasione fiscale, un fenomeno eclatante. Questo punto è più importante che parlare di flat tax. Non si tratta di dar la caccia ai ricchi, ma di far pagare chi non paga e penso che oggi sia possibile scalfire il muro dell’evasione, potendo disporre di un patrimonio informativo sterminato.
E c’è qualche ricetta dall’estero che possiamo importare in Italia?
Bisogna organizzarsi un po’ all’americana su programmi articolati. Negli Stati Uniti hanno la passione per gli acronimi, come il WIC (Women Infant Children), che esiste da 40 anni e ha ottenuto risultati positivi a favore di donne con figli piccoli grazie a sostegni determinati e coordinati. Ecco, noi non abbiamo acronimi su cui costruire, fissando obiettivi, percorsi e risorse già esistenti.
(Marco Biscella)