“Meno tasse per tutti”: correva l’anno 2001 e i cartelloni 6×3 invasero l’Italia, ideati dalla fantasia provocatoria del sondaggista Luigi Crespi, promettendo agli elettori il Paradiso terrestre fiscale, meta agognata da chiunque in quell’inferno fiscale che è invece l’Italia vera. Fiorirono gli slogan, e fiorirono le parodie, lanciate dallo stesso Crespi in incognito, da “Meno tasse per Totti” a “Più lasagne per tutti”, a quelli sconci… e così via. Cetto La Qualunque prometteva, a tutti, ben altro, con la stessa formuletta.
Ma la clamorosa vittoria elettorale di Berlusconi in quelle consultazioni – destinate poi a condurlo all’unico quinquennio di governo stabile della sua esperienza politica fino a oggi, visto che la successiva vittoria, nel 2008, s’infranse sugli scogli della crisi globale e dei diktat europei, cedendo il passo al primo governo non-eletto, quello di Mario Monti – nacque anche sulla promessa della liberazione fiscale.
Diciassette anni dopo, ci risiamo. Il cavaliere non è più lo stesso, gli anni passano per tutti, ma sarebbe ingenuo dire: “Sotto il cerone, niente”. La sensibilità nazionalpopolare (piano con l’epiteto “populista”, che in questo caso non c’entra) è sempre la stessa. E il primo problema degli italiani anche: troppe tasse, meno soldi. Non solo il benessere sostanziale del Paese è diminuito pesantemente, dall’introduzione dell’euro in qua, e non solo la forza dell’economia si è ridotta di pari passo; ma anche e soprattutto mai come nei nostri tempi è entrato in gioco, per difendere il tenore di vita, il patrimonio delle famiglie, che hanno attinto a man bassa.
Nel Paese che, con lo scandalo Petromin, conobbe il paradosso dei reati, quello per il quale si scoprì che il capo dei finanzieri era anche il primo dei contrabbandieri, l’evasione fiscale non è quindi vista come un reato, né come un’infrazione, è un comportamento endemico.
Evadono i magistrati, evadono i notai, evadono i commercialisti, i preti, i politici. Certo, non tutti loro, ma tanti di loro. E nessuno si scandalizza. Di fronte a un fisco che non solo esprime una delle tre pressioni più alte d’Europa, ma soprattutto la manifesta attraverso un ginepraio di regole inapplicabili, contraddittorie e vessatorie, solo qualche anima bella – e assolutamente ipocrita – si permette ancora di dire “le tasse sono bellissime” come il compianto (ma non per questa affermazione stupida) Tommaso Padoa Schioppa.
E dunque promettere sgravi fiscali è la parola magica: e nessuno sa usarla come Berlusconi, che – ironia della sorte – è anche stato condannato in giudicato per frode fiscale, e pervicacemente continua a professarsi innocente ed è dichiaratamente in attesa del miracolo giudiziario dalla Corte di giustizia europea. I suoi detrattori sferzano: ecco, il campione degli evasori promette la liberazione fiscale. Buon argomento. Ma non c’è uno straccio di partito – meno che mai quelli di sinistra – ad aver saputo elaborare un programma, sul fisco, capace di rincuorare la gente, capace di imporre un pagamento equo delle tasse a tutti, in cambio di un prelievo più basso. Nel frattempo l’apparato dell’accertamento e del controllo fiscale è diventato a dir poco pletorico, si è informatizzato – caso unico al mondo – in modo da complicarci la vita anziché semplificarla, la dichiarazione annuale dei redditi che i lavoratori autonomi compilano, che vent’anni fa si riusciva a fare (per quanto fosse già difficilissimo) leggendo una decina di pagine di istruzioni, oggi è un rompicapo con duecento pagine di istruzioni, ormai di fatto inaccessibile agli stessi commercialisti. Uno schifo e un’ingiustizia, né più né meno.
Tra l’altro, surrealmente, l’abolizione del ministero delle Finanze, e il suo accorpamento con quello dell’Economia, ha spezzato quel minimo di dialettica che era sempre esistita tra “il ministro della spesa”, che era quello del Tesoro, e il ministro delle entrate, appunto quello delle Finanze. Tutti quelli che facevano la caricatura di Vincenzo Visco, disegnandolo con i canini sporgenti come Dracula, almeno sapevano con chi prendersela… Oggi, neanche più quello. A chiedere a Padoan qualcosa sull’Irap ci si sente stupidi come a chiedere a un vegetariano che sapore ha una bistecca: non è materia sua.
Sulle promesse del Berlusconi 2018 c’è assai poco – per ora – da investigare. Parlando – come sempre in sede amica – davanti a Paolo Del Debbio a Quinta Colonna, il Cavaliere (anzi, l’ex-Cav, come puntutamente, ma esattamente, lo apostrofa Il Fatto) sventolava fascicoli di fogli A4, che non guarda mai anche perché senza occhiali difficilmente, da presbite dissimulato qual è anche lui, riuscirebbe a leggere: su quei fogli, si suppone, dovevano trovarsi le pillole di verità che supporterebbero la sua annunziata buona novella fiscale, supportata, dice lui, dai “più autorevoli” economisti europei, dei quali però non ci rivela il nome.
Flat-tax (tassa piatta) per tutti, divisa in due scaglioni, e addio progressività fiscale scolpita nella nostra Costituzione: una norma del genere, se anche passasse in Parlamento, sopravvivrebbe alla Corte Costituzionale? Naturalmente il Cavaliere procede per slogan e non lo dice, non ritiene degni i telespettatori di una spiegazione giuridica, o politica, ammesso che lui la conosca e ammesso che la cosa rilevi nel Paese dei garbugli. E quindi, è facile chiacchierare: fino a un tot di reddito, si pensa i 100 mila euro, si pagherebbe solo il 23%, ma se paghi il fisco ti lascia in pace; in compenso, via le agevolazioni che creano il massimo del disordine e dei contenziosi. Oltre il centomila si sale al 33% per cento (anche qui, lo scaglione è incerto). Punto: facile, chiaro.
E che gli facciamo fare all’esercito dei centomila dipendenti pubblici che oggi vivono facendoci le pulci a noi contribuenti onesti e lasciando indisturbati gli evasori fiscali? Tutti a casa, senza stipendio? Tutti a dirigere il traffico davanti alle scuole materne? Questo, Berlusconi non lo dice. Aggiunge invece altre promesse: basta tasse sulla prima casa, sull’auto, su successioni e donazioni: “Questa flat tax è una rivoluzione globale, che porterà l’economia a crescere e a creare posti di lavoro”, ripete lui come un mantra. E ribadisce: “Intendiamo partire con l’imposta più bassa attuale del 23%, ma con l’intenzione di ridurla via via, se ci sarà un incremento delle entrate”, arrivando a “una sola pagina” di dichiarazione del reddito. Che mito. Quando timidamente gli si chiede quanto costerà tutto ciò, lui replica impassibile: cento miliardi di euro, ma ne frutterà 140, parole dei soliti “Economisti anonimi”, come si potrebbe chiamare la loro associazione, se l’avessero: un po’ come quella degli “Alcolisti anonimi”.
Eppure… Eppure, perfino Bill Emmott, l’ex direttore dell’Economist dà un po’ di ragione al Berlusca. Emmott, l’uomo che ideò la celeberrima copertina su fondo nero, con una foto di un Berlusconi dubbiosi, e il titolo “Perché è inadatto a guidare l’Italia”, ha ammesso che “la flat tax potrebbe essere utile in Italia”. Considerandoci – come sempre e da sempre – un popolo di trogloditi incivili, e quindi sensibile ai vantaggi di questa formula fiscale come lo sono stati i numeri popoli del’Est Europa che l’hanno adottata con successo, a loro volta, visti dalla city di Londra, trogloditi e incivili, non possiamo che essere trattati a “flat tax”. La disprezza, ci disprezza, ma la approva.
Dunque, qualcosa di affascinante, in quest’idea, c’è. Ma soprattutto, nessun altro – neanche i due politici del momento che sono sicuramente almeno altrettanto bugiardi di Berlusconi e certamente meno competenti di lui in materia economica, cioè Matteo Renzi e Luigi Di Maio – ha uno straccio di idea interessante in materia di fisco. Cioè in materia di ceto medio. Cioè in materia di vita economica del Paese. Ecco perché Berlusconi può vincere.