Sergio Marchionne entra in politica? In molti hanno pensato a lui come all’ideale candidato del centrodestra per guidare il nuovo governo. Corrisponde al profilo tracciato da Silvio Berlusconi il quale, tra l’altro, ha fatto riferimento esplicito al gran capo della Fiat Chrysler. Finora erano poco più che chiacchiere da caffè. Ma la scorsa settimana Marchionne, dall’annuale salone automobilistico di Detroit, di politica ha parlato, eccome: ha ammesso la sua delusione per Matteo Renzi, che pure aveva appoggiato apertamente, e ha rilanciato la promessa di piena occupazione alla Fiat in Italia entro l’anno, anche se con qualche caveat. Il manager italo-canadese ha gettato un sasso, senza nascondere la mano.



Piena occupazione negli stabilimenti dell’auto, un settore dato per morto e che, invece, ha tirato l’industria nell’ultimo anno. Ma perché non allargare il campo anche oltre la manifattura? Come? In Italia il pieno impiego non fa parte dell’agenda di nessun partito o movimento che dir si voglia. Certo, un po’ tutti parlano di lavoro, ma per lo più vogliono fare marcia indietro rispetto al Jobs Act che, al contrario, rappresenta un passo fondamentale nel cammino verso l’uso ottimale del fattore lavoro.



Berlusconi, per la verità, non pensa di abolire la legge, ma di migliorarla per ridurre il precariato, magari con incentivi fiscali agli imprenditori che assumono a tempo indeterminato. Il Movimento 5 Stelle ha scelto la strada dell’assistenzialismo diffuso e vuole estendere il reddito di cittadinanza (anche se nella ultima versione, più moderata, assomiglia a un’indennità di disoccupazione più consistente e più diffusa). Quanto al Pd che ha avuto il coraggio di sfidare la Cgil abolendo l’articolo 18 per i nuovi assunti, adesso sembra quasi vergognarsene, quindi preferisce parlar d’altro.



Anche se per il momento nessuno nessuna forza politica lo ha capito (o magari ha fatto finta di non capirlo), l’occupazione è realmente il tema centrale della prossima legislatura. In molti paesi il pieno impiego non è affatto un miraggio. Negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione è sceso al 4,3%, in Germania addirittura al 3,6%, in Giappone, dove per una serie di motivi è sempre stato inferiore, arriva appena al 2,6%. Sono livelli irraggiungibili dall’Italia la cui disoccupazione oscilla ancora tra 10 e 11 punti di percentuali. Tuttavia lo spettro della ripresa senza lavoro, da molti evocato, non si è materializzato. L’Istat nel suo ultimo rapporto scrive che l’ingresso nel mercato del lavoro di persone precedentemente inattive è significativo, più che in Francia, più che prima della lunga recessione.

Non siamo nel regno dell’utopia, dunque, ma occorre una politica economica robusta, coraggiosa e innovativa. In Italia è più difficile per colpa del debito pubblico che sta ancora al 130% del prodotto lordo. Ma non si tratta affatto di applicare ovunque la stessa formula magica. Il rigore tedesco, l’espansionismo giapponese e la spesa in deficit americana sono ricette diverse, date le diversità strutturali dei diversi paesi. L’errore commesso nell’area euro è stato proprio non tenere conto a sufficienza delle specificità nazionali e delle resistenze dovute anche alla storia non solo alla politica. Certo, esistono delle costanti. Nessuno raggiunge la piena occupazione facendo la cicala (per usare la metafora alla quale ha fatto ricorso Paolo Gentiloni), ma il mix tra conti in ordine, risparmio, consumi e investimenti, non può che essere deciso su base nazionale, anche là dove la moneta comune richiede di rispettare dei parametri fondamentali.

Quale potrebbe essere, dunque, la politica economica che apre la porta alla piena occupazione? In primo luogo occorre sostenere la ripresa aumentando gli investimenti. Quelli privati sono ripartiti anche grazie agli incentivi concessi con industria 4.0, adesso tocca agli investimenti pubblici. Adesso ci vuole una sorta di Pubblica amministrazione 4.0 affinché i soldi stanziati non si perdano per strada. Il governo ha concesso consistenti aumenti agli statali le cui buste paga, gonfiate in modo eccessivo fino al 2007, sono state poi congelate. È arrivato il momento di aumentare la produttività in modo netto e drastico. Ma anche le imprese private debbono mettere in cantiere un nuovo ciclo di aumenti salariali legati alla produttività, rispondendo all’invito rivolto da Mario Draghi.

Si tratta, poi, di realizzare la parte incompiuta del Jobs Act, quella che riguarda la politica attiva del lavoro. Ma non basta, occorre una vera e propria sterzata nella scuola stringendo un rapporto sempre più stretto con il mondo delle imprese. Scrive l’Istat: “Un ulteriore elemento che caratterizza l’attuale livello di disoccupazione è lo spostamento a destra della curva di Beveridge (deve il suo nome all’economista inglese padre del moderno welfare state, ndr), che combina i livelli del tasso di posti vacanti con quelli del tasso di disoccupazione. Per uno stesso livello del tasso dei posti vacanti, nei primi mesi del 2009 il tasso di disoccupazione corrispondente era pari a circa il 7%, mentre nei primi mesi del 2017 è salito al 12%, a testimonianza di cambiamenti strutturali nella relazione tra domanda e offerta di lavoro”. In altri termini, mentre ci si lamenta che manca il lavoro, le aziende cercano nuovo personale e non lo trovano, perché la scuola ha mancato di formare i quadri adatti alla economia odierna.

Una politica di sostegno alla ripresa si scontra subito contro il muro delle compatibilità europee. E il commissario Pierre Moscovici non a caso ha subito acceso la luce rossa. Ma quale situazione migliore che un inizio di legislatura per contrattare con Bruxelles il via libera a una strategia di sviluppo con un orizzonte di medio termine? Naturalmente occorre avere una programma coerente e consistente, basato su fatti e non su promesse vuote, se non truffaldine. Ma questo spetta alle forze politiche italiane, non può venire né dall’Ue, né dalla Bce.