Le recenti proiezioni di Banca d’Italia ipotizzano una crescita del Pil dell’1,4% nel 2018 (1,5% circa nel 2017) e non oltre l’1,2% nel 2019-20. Tali stime, pur ancora grezze, fanno sospettare che senza azioni stimolative molto forti l’economia italiana andrà in stagnazione o peggio. Le previsioni 2018 e gli andamenti dell’ultimo trimestre 2017 già mostrano un iniziale rallentamento della crescita italiana e confermano il suo posizionamento sotto la media europea. La domanda globale mostra un lieve rallentamento nel 2018-19.



In sintesi, al leggero indebolimento del traino globale corrisponde un ripiegamento della crescita italiana, come se questa fosse incapace di forza espansiva propria e dipendesse quasi totalmente dalla spinta esterna. Significa che l’Italia cresce grazie all’export, con risultati strepitosi nel 2016-17, ma pochissimo per dinamiche interne, pur migliorate, mantenendo un’eccessiva dipendenza dal ciclo globale: si chiama “ripresa passiva”. Se così, c’è un grosso problema la cui soluzione implica, appunto, l’applicazione urgente di una leva economica interna: detassazione stimolativa per più investimenti privati e allocazione delle risorse fiscali più sugli investimenti pubblici e meno per la spesa improduttiva nonché riparazione più rapida del mercato dei capitali.



Ma il governo ha insistito e insiste nel sostenere che “la via è stretta”, cioè che lo spazio del bilancio statale per stimoli forti non c’è: decine di miliardi ogni anno devono ripagare gli interessi sul debito, non si può fare deficit per non aumentare l’enorme debito stesso, non si possono abbassare le tasse per questo motivo e per non dover licenziare impiegati pubblici, ecc. Da un lato, ciò è vero dal punto di vista di una visione politica che non vuole cambiare modello economico. Dall’altro, non è vero in assoluto. Per esempio, se si decidesse di gestire meglio e vendere il patrimonio pubblico disponibile si potrebbe ridurre di circa 600-700 miliardi il debito (oggi di circa 2.275 miliardi) risparmiando ogni anno dai 20 ai 30 miliardi di spesa per interessi con cui ridurre le tasse, pareggiare il bilancio, intervenire sulle povertà assolute e accendere investimenti stimolativi infrastrutturali, il tutto senza dover licenziare alcuno pur riducendo la spesa pubblica improduttiva.



In conclusione, la via resterà certamente stretta se il futuro governo non organizzerà un’operazione “patrimonio pubblico contro debito statale”, ma sarà ben più larga se lo farà. Sconcertante il fatto che questo tema non sia in priorità nella campagna elettorale.

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