È un sentimento inconfessabile, nei salotti buoni; fa sentire in imbarazzo, come quando una flatulenza elude il nostro autocontrollo proprio mentre ci troviamo, con estranei, in un ascensore. Eppure, eppure un po’ di simpatia per quel gaglioffo biondastro che occupa transitoriamente lo studio ovale della villona di Washington nota come Casa Bianca è inevitabile provarla, ogni tanto, quando lo si confronta con i suoi virtuali antagonisti, i suoi detrattori politicamente corretti, tutti quelli peggiori di lui che si permettono di fargli la morale, di mettere in riga Donald Trump!



Come ieri, quando la signora Angela Merkel – lady surplus – si è appunto permessa di criticarne il protezionismo! Il bue che dà del cornuto all’asino! “Il protezionismo non è la risposta” alle crisi che vive l’economia mondiale, ha bacchettato Merkel. Mentre il suo amico-nemico Macron ha ripetuto lo stesso concetto in salsa francese e poi se n’è andato, quasi per non incontrare Trump che arriva oggi.



In realtà sarebbe più giusto parlare di protezionismi. Quello lanciato dal presidente degli Stati Uniti è di scuola classica, francese peraltro: dazi sull’importazione di manufatti provenienti da Paesi a forti fattori competitivi, come i pannelli solari cinesi. Salutato peraltro con euforia da molti settori dell’industria manifatturiera americana. Anche perché, incrociandone l’effetto con gli sgravi connessi alla riforma fiscale, si ottiene un moltiplicatore fortissimo degli utili venturi delle industrie statunitensi, che spiegano la fase brillantissima della Borsa e l’andamento stellare dell’occupazione: risultati magari transitori ma innegabili, roba interessante se si considera che l’ha fatta un presidente-gaglioffo, no?



Poi c’è il protezionismo monetario dei tedeschi. Hanno imposto una politica economica comune all’Europa che tenendo il valore dell’euro basso rispetto ai cambi internazionali – basso almeno se lo si relaziona agli indici di crescita, che vedono l’eurozona molto indietro rispetto a Cina e Usa – ha messo il turbo alle esportazioni tedesche (anche un po’ alle nostre, per fortuna), che hanno determinato nei conti della Germania un surplus commerciale di molto eccedente il rapporto massimo consentito sul Pil dai parametri di Maastricht. Il che, unito all’afflusso di capitali stranieri verso i titoli di Stato tedeschi, che rendono pochissimo ma sono considerati un bene-rifugio, ha gonfiato anche l’attivo della bilancia valutaria germanica. 

Nell’insieme, un Paese grasso e ricco, dove però la qualità della vita e il tasso di consumi interni rimangono bassi solo in forza di una qualche strana macumba psicologica per la quale si teme sempre il peggio e si continua a prepararsi al peggio senza mai vivere appieno l’abbondanza del momento. Ma fermiamoci qua per non scivolare nella psicologia sociale da quattro soldi. Resta che la Merkel non dovrebbe davvero permettersi di lanciare anatemi contro il protezionismo di chicchessia. Anatemi che lo “stivaluto” Trump ignora totalmente. Come se ne strafrega delle critiche al suo vagheggiato “muro” con(tro) il Messico, che se è moralmente bieco, politicamente si limita a voler completare l’opera iniziata (3000 chilometri già fatti!) dai suoi due predecessori democratici, Bill Clinton e Barack Obama, rispetto ai quali i benpensanti del mondo mai si permisero di storcere il naso.

Dopo di che, complice forse la vicinanza del capo di Google, l’indiano Sundar Pichai, la Merkel ha lanciato un suo “new deal” – un po’ stravagante su labbra tedesche – circa la necessità che l’Europa “impari le lezioni della storia” (alla lettera, ciò comporterebbe che i tedeschi avessero scelto di tacere per un secolo, contando dal 1945, nei consessi internazionali) e che scommetta sull’innovazione, dando vita a un “mercato unico digitale” , in cui “i dati siano condivisi, per dare prosperità a tutti”, con ciò creando un parallelo tra condivisione dei dati e prosperità che non esiste né in cielo né in terra… 

Infine, il sarcasmo di Macron, che ha ironizzato contro la recente battuta scettica di Trump a proposito del riscaldamento globale dicendo: “Con questa neve è difficile credere nel riscaldamento globale. Naturalmente, e per fortuna, quest’anno non avete invitato nessuno che sia scettico su questo”. Ora: è vero che Trump si muove su questi temi come un elefante nella cristalleria, ma è anche vero che tutti gli scienziati convergono nel decorrelare i danni sistemici delle emissioni di Co2, indiscutibili e da prevenire, con l’andamento meteorologico delle stagioni, visto che nei millenni passati, quando i fattori “antropici” di contaminazione dell’atmosfera erano nulli, le glaciazioni ci sono sempre state, come pure gli abnormi disgeli da surriscaldamento che hanno inondato ampie aree del pianeta…

Ma comunque, resta la discrasia: da una parte l’eleganza dei distinguo politico-intellettuali dei leader europei, dall’altra gli stivaloni metaforici di Trump. Però anche – e purtroppo per noi – vicino agli eleganti politici europei, troppa disoccupazione; dalle parti del cowboy, piena occupazione. Perché non commentano questo, Macron e Merkel?