Il nuovo spettro che s’aggira per il mondo ha dominato quest’anno gli incontri di Davos. Donald Trump, protagonista assoluto, ha ottenuto un successone suonando corde meno aspre: America first non vuol dire che l’America fa tutto da sola e il libero scambio va bene se è equo e reciproco. In realtà, sotto il nome protezionismo (etichetta oggi più ideologica e politica che economica) si nasconde il nuovo grande gioco che si sta svolgendo sui mercati internazionali, un gioco competitivo che vede confrontarsi vaste aree (Nord America, Europa, Cina e sud est asiatico) e, al loro interno, singoli paesi, anzi stati perché sono coinvolti più che mai i governi. La partita non si svolge più prevalentemente dentro le organizzazioni multilaterali, ma prende la forma di trattati bilaterali, quasi sempre alla fine di un estenuante braccio di ferro tra i protagonisti. Dove sta l’Italia in questo scenario e come si presenta?



Intanto bisogna sfatare alcune convinzioni comuni. L’ondata neo-protezionista non l’ha creata Trump, lui la cavalca e in modo contraddittorio. Il presidente tutt’al più si comporta come un surfista, ma l’onda anomala nasce dalla lunga crisi cominciata nel 2007 ed esplosa l’anno successivo. L’altra idea fissa è che la globalizzazione abbia svantaggiato gli Stati Uniti e i paesi industrializzati a favore della Cina e di quelli in via di sviluppo. Che nuovi protagonisti abbiano fatto irruzione prendendo una bella fetta della torta è senza dubbio vero. Ma per molto tempo la torta è cresciuta per tutti.



La bilancia commerciale americana è sempre stata in deficit dagli anni ‘70 in poi, la fine del sistema monetario dei cambi fissi non ha migliorato la situazione. Nonostante ciò, la quota delle esportazioni sul prodotto lordo americano è sempre aumentata. Nel 1990 era pari al 9,3% oggi è attorno al 13%. Gli Stati Uniti anche se per quantità di merci e valore esportato si collocano tra i primi al mondo, nella sostanza sono un sistema chiuso a difesa del proprio mercato interno. Si pensi che l’export sul Pil tedesco è al 46% e quello italiano al 30% (non parliamo dei piccoli paesi come l’Olanda dove la quota raggiunge l’80%). Una guerra dei dazi, quindi, danneggia di più i paesi esportatori che gli Usa.



La globalizzazione, mentre ha visto la Cina emergere come protagonista assoluta, non ha impedito che l’Unione europea mettesse in conto un forte attivo nella bilancia commerciale e che all’interno dell’Ue alcuni paesi si siano sempre più orientati verso i mercati esteri per affrontare e superare la crisi. La Germania ha guidato la danza, arrivando a eccessi controproducenti, tanto che la grande coalizione che dovrebbe formare il nuovo governo sta discutendo proprio come metter freno a un surplus della bilancia con l’estero che arriva ormai al 9% del Pil. Anche l’Italia ha un attivo importante (di poco inferiore al 3%), nonostante dal dibattito pubblico italiano, quello politico, ma anche quello che si svolge sui mass media, sembra esattamente il contrario.

Finora, dunque, il gioco non è stato a somma zero, sebbene abbia fatto molte vittime soprattutto nei paesi occidentali, tra quelle categorie sociali e quei settori economici che non sono riusciti a tenere il passo e non sono stati aiutati a farlo. Le divergenze attuali sono il frutto di diverse velocità in una corsa alla quale tutti hanno partecipato, ma non è scontato che sia ancora così: se scoppiassero vere guerre commerciali si aprirebbero profonde fratture e verrebbero mandati fuori pista interi continenti.

E l’Italia, come si colloca in questa partita multipla? Il Paese ha faticato a tenere il passo, come sappiamo. Ma anche qui c’è un senso comune da passare al vaglio dei fatti. Se guardiamo indietro scopriamo che la vera caduta dell’export rispetto agli altri paesi europei è avvenuta negli anni ‘80; dal 1999 invece c’è stata una risalita. L’introduzione dell’euro ha spinto l’economia italiana sempre più a proiettarsi fuori, prima in Europa e negli ultimi anni in Cina e in America. Nonostante ciò, la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda (per non parlare della Germania e dell’Olanda) si sono mosse prima e meglio (il tutto è riassunto nel grafico più in baso). Si sente dire che la ripresa italiana è troppo trainata dalle esportazioni, mentre bisogna sostenere il mercato interno. La realtà è che la spinta proveniente dall’estero non è ancora sufficiente, occorre fare di più. In che modo?

 

Non è facile rispondere e nessuno ha la bacchetta magica, ma le idee che circolano nel dibattito politico sono poche e spesso sballate. Tutta la retorica sul made in Italy ha nascosto finora un sostanziale vuoto di politica commerciale che ha lasciato le aziende sole ad affrontare le nuove sfide. Nasce da qui una grande frustrazione che porta a chiedere di proteggere tutto e il contrario di tutto: l’agricoltura estensiva e quella bio, l’industria di base e le nicchie di eccellenza, i marchi veri e quelli falsi. In mancanza di una chiara definizione delle priorità nazionali, è evidente che ciascuno cerchi di salvare se stesso. E le priorità debbono essere indicate dalla classe dirigente, non solo quella politica, ma anche quella economica.

La vicenda dei cantieri navali ha provocato una catena di psicodrammi tra Italia e Francia, alla fine il negoziato ha aperto la strada a una nuova fase di collaborazione che, dall’industria della difesa alle nuove tecnologie, potrebbe impostare in modo diverso il rapporto tra i due paesi confinanti, come è emerso dal recente incontro tra la Confindustria e il Medef, l’associazione industriale francese. Nel nuovo scenario guai a illudersi di poter fare da soli, però ciascuno deve scendere in campo consapevole dei propri interessi di fondo per difenderli con intelligenza. Il gioco competitivo può anche diventare un gioco cooperativo, ma non si può più delegare nulla a nessuno.