Sembra di vivere nel paese delle illusioni, oppure in quello del gatto e della volpe descritto così bene da Collodi. Un paese che ha perso la memoria del passato e che non trova motivazioni per guardare con fiducia al futuro. Un paese che viene descritto per quello che non è nel tentativo di raccogliere consensi coltivando il rancore e l’insoddisfazione.



Più che le promesse, costruite sulla sabbia, quello che sorprende nella narrazione politica è l’immagine di una società che è tutta da ricostruire, dove le istituzioni sono corrose dalla corruzione e dove il tratto costitutivo di ogni intervento deve essere quello del cambiamento. Salvo poi scoprire che la volontà maggiormente condivisa è quella gattopardiana di cambiare tutto per lasciare tutto come prima, ognuno con i propri privilegi nascosti e le piccole o grandi rendite di posizione.



In questa dialettica dove sembra costantemente prevalere la logica di chi guarda il mondo con gli occhiali scuri del pessimismo si levano tuttavia ogni tanto delle voci di chi vuol difendere essenzialmente due elementi: in primo luogo, l’osservazione della realtà come essa è e non come noi vorremmo che fosse, e in secondo luogo il tentativo di valorizzare quegli elementi che possono costituire fattori veri di coesione sociale e di progresso civile.

Una di queste voci è stata quella del Censis di Giuseppe De Rita, che da 51 anni nei propri rapporti annuali tenta di elaborare delle analisi dell’evoluzione della società italiana senza la retorica delle ideologie e la pressione del collateralismo politico. I primi 50 anni dei rapporti Censis sono stati raccolti in un volume, curato dallo stesso De Rita (“Dappertutto e rasoterra”, ed. Mondadori, pag, 850, euro 30). Ne esce una rilettura accattivante con un filo conduttore costituito dalla ricerca sul campo secondo le regole di una sociologia animata dalla volontà di conoscere più che dalla smania di giudicare.



È l’Italia dalle mille potenzialità, dai localismi forti, dai soggetti che rischiano nonostante l’indifferenza e l’ostilità, ma è anche l’Italia delle divisioni, della frantumazione, dell’individualismo. Significative le parole con cui De Rita introduce le ultime relazioni annuali: “In questi anni – scrive il fondatore del Censis – diventa evidente come mai prima d’ora, il grande distacco tra potere politico e popolo. Il corpo sociale si sente rancorosamente vittima di un sistema di casta, il mondo politico si arrocca a parole sulla necessità di un rilancio dell’etica e della moralità pubblica, mentre le istituzioni non riescono più a “fare cerniera” tra dinamica politica e dinamica sociale. È proprio nel parallelo rintanamento chez soi di politica e società che cresce il populismo”. Eppure il Paese va avanti con “processi di sviluppo reale che confermano il primato della soggettività e del capitalismo molecolare”.

Quella italiana è infatti una società che continua a muoversi, a innovare, a far nascere nuove imprese magari sulle ceneri di quelle incapaci di stare al passo con i tempi. È un Paese in cui molti imprenditori hanno tirato i remi in barca cedendo all’estero aziende costruite dai padri o dai nonni, ma è anche un Paese che sa fare della creatività un valore aggiunto difficile da uguagliare. Ci sono molti elementi positivi, magari nascosti e silenziosi. C’è una passione per i valori della solidarietà che non può essere dimenticata. C’è un’identità collettiva che si può ritrovare. “Sempre che – osserva De Rita – riusciremo a liberarci dal malanimo del rancore e dal languore della nostalgia: cioè dai due sentimenti collettivi dominanti oggi tra gli italiani e negli ondeggiamenti politici attuali”.