Il recente disastro ferroviario nei pressi di Pioltello non è che un esempio, a livello micro-economico, del nodo della produttività in Italia, che ha smesso di crescere attorno al 1995 e, dopo una caduta, si è assestata dal 2007 a livelli inferiori a quelli raggiunti un lustro prima della fine del secolo scorso. Sta alle indagini dei magistrati individuare se ci sono colpe e a chi attribuirle. Tuttavia, gli elementi ci sono tutti perché un’analisi economica metta in evidenza la scarsa produttività della rete ferroviaria: a) c’erano i mezzi tecnici, a pochi passi dal binario che ha ceduto, per sostituire il tratto di binario, ma la sostituzione non è stata tempestiva; b) permangono dubbi sull’efficacia della manutenzione; c) sorgono domande sull’allocazione delle risorse tra tratti ad alto rendimento (quali quelli delle varie “frecce”) e i treni per i pendolari; d) emergono interrogativi sulla saggezza della fusione tra Ferrovie dello Stato e Anas e sull’opportunità delle nomine di vertice fatte da un Governo in ordinaria amministrazione, nonché della decisione presa circa due anni e mezzo fa di smantellare il gruppo tecnico che componeva la “struttura di missione” per l’attuazione della “legge obiettivo”; e) soprattutto, appare una certa disorganizzazione. Tutti elementi che incidono negativamente sulla produttività e che non vengono curati da un aumento delle spese per ricerca e sviluppo.



Se dalla tragedia di Pioltello andiamo agli aspetti macro-economici vediamo che il nodo della produttività riguarda tutti i Paesi industrializzati a economia di mercato, anche quelli che corrono di più, come gli Stati Uniti. Negli Usa non c’è stata una riduzione, prima, e un ristagno, poi, della produttività come in Italia ma la produttività del lavoro (quella più semplice da stimare), dopo una crescita del 2,5% dal 1995 al 2004 segna un aumento annuo appena dell’1%, nonostante lo sviluppo di grandi imprese ad alta tecnologia, nate, e localizzate, nel Nord America come Amazon, Google, Facebook e simili.



Le determinanti della riduzione della produttività negli Stati Uniti, e della sua stagnazione in Paesi come l’Italia, sono state uno degli elementi centrali della riunione annuale di circa tremila economisti iscritti all’American Economic Association tenuta all’inizio di gennaio a Philadelphia. Una selezione degli studi presentata verrà, come ogni anno, pubblicata in un numero speciale dell’American Economic Review all’inizio dell’estate, ma numerosi lavori sono consultabili in siti ad abbonamento. Possono essere utili al Governo italiano che verrà formato dopo le elezioni del 4 marzo.



L’interrogativo di fondo è perché la produttività ha rallentato, o stagnato, nonostante il forte aumento degli investimenti in ricerca. È quanto avvenuto negli Stati Uniti, come documentato in uno studio collettaneo, guidato da John Fernald della Federal Reserve Bank di San Francisco. Una spiegazione è offerta da un nuovo modello teorico presentato da Daron Acemoglu del Massachusetts Institute of Technology (Mit) e da Pascual Restrepo della Boston University. Il loro lavoro distingue due differenti tipologie di progresso tecnologico: a) quello che rimpiazza lavoro con macchine (e che crea disoccupazione e abbassa le retribuzioni di chi lavora); b) quello che crea nuove, e più complesse, attività per uomini e donne (che invece aumenta la loro produttività e i loro guadagni).

Nella storia economica queste due tipologie si sono mosse quasi di pari passo, spinte dalle forze del mercato. Tuttavia, da tempo non sono in sincronia. Le determinanti sono molteplici: il capitale ha un prezzo basso (a ragione delle varie misure di Quantitative easing) rispetto al lavoro, la fiscalità premia gli investimenti in capitale, l’attenzione delle imprese e della politica economica è soprattutto rivolta all’automazione e via discorrendo. In questi casi, si dà poco peso a nuove, e più produttive, attività per uomini e donne. Un altro elemento è che una parte significativa della forza lavoro non ha la formazione di base per essere addestrata ad affrontare le nuove attività; in questo caso, gli investimenti in ricerca e sviluppo non trovano un terreno da fertilizzare.

Un lavoro di Erik Brynjolfsson (anche lui del Mit) fa da complemento alle analisi di Acemoglu e Restrepo: quando si è alle prese con tecnologie che possono essere utilizzate in vari settori e per molteplici scopi (in gergo general purpose technologies) possono essere necessari anni perché si vedano i risultati, perché occorre non solo alfabetizzare, nelle nuove tecnologie, i lavoratori a tutti i livelli (dai più alti dirigenti alla manovalanza), ma si deve modificare “l’ambiente” (organizzazioni, gerarchie, procedure, prassi). È quanto avvenuto, ad esempio, in Europa quando negli anni Novanta e nei primi anni di questo secolo si ebbe l’introduzione diffusa della net economy, ma una proporzione significativa della forza lavoro non aveva la preparazione e ai piani alti di aziende e di Pubblica amministrazione si pensava di poter introdurre le nuove tecnologie senza modificare organigrammi, procedure e prassi.

La conclusione immediata che si trae da queste analisi è che non basta l’attenzione su investimenti in ricerca e sviluppo (come nel programma Industria 4.0) se non c’è una pari attenzione alla formazione e una ferma volontà di modificare “l’ambiente”. Sul primo punto possono essere importanti i risultati della ricerca sull’occupazione dei diplomati tecnici e professionali, condotta dalla Fondazione Agnelli e dal Centro Interuniversitario di Ricerca per i Servizi di pubblica utilità, che verranno presentati a Roma il primo febbraio. Sul secondo punto, tutti debbono farsi un esame di coscienza, soprattutto le alte dirigenze.