Puntuali come ogni anno, anche il 2018 è iniziato con gli annunci dei rincari delle tariffe autostradali. Come da tradizione più che decennale i rincari sono superiori all’inflazione e al tasso di crescita del Pil. Vent’anni di rincari di questa portata hanno reso molte autostrade italiane un lusso. Quelle più nuove, realizzate con centinaia di milioni di euro di sovvenzioni pubbliche, rimangono vuote anche per il contributo decisivo di tariffe che sostanzialmente impediscono al pendolare medio l’utilizzo; nonostante anni di lavori e consumo di suolo pubblico. Il risultato grottesco è che un monopolio pubblico e un’infrastruttura vitale per l’economia vengono sostanzialmente sequestrati per le fasce più povere e diventano un quasi lusso per ricchi. 



La ragione di questo epilogo è che gli attuali schemi di concessione, i cui dettagli non sono pubblici, hanno come principio immutabile il rispetto dei diritti dei concessionari privati. Il tasso di rendimento promesso e garantito dallo Stato italiano ai concessionari rimane in doppia cifra da anni, nonostante il rendimento dei Btp sia infimo, nonostante il Paese sia in crisi da dieci anni e nonostante una disoccupazione che non scende mai. Questo meccanismo perverso cumulato in anni ha reso alcune tratte autostradali carissime, e nel caso di quelle nuove ne impedisce perfino l’utilizzo. Nessuno si azzarda a dire niente perché la politica è debole e perché lo Stato italiano, che non può investire, è costretto a esaudire le richieste dei concessionari privati, a carissimo prezzo, pur di assicurarsi gli investimenti che solo loro sono ormai in grado di fare. Investimenti finanziati dalla collettività obbligata a pagare i pedaggi per un monopolio che creano fortune colossali.



Qualcuno avrà notato una stranezza incredibile. I concessionari privati di un Paese in crisi negli ultimi trimestri sono andati in giro per il mondo a comprare battendo, in alcuni casi, la concorrenza di fondi infrastrutturali giganteschi e di fondi sovrani. Atlantia, che genera due terzi della propria cassa in Italia, ha comprato l’aeroporto di Nizza e ha lanciato un’opa da quasi venti miliardi di euro per comprare le autostrade spagnole e francesi di Abertis. La piccola Sias è diventata uno dei principali concessionari brasiliani con un investimento da mezzo miliardo di euro. I concessionari privati italiani in questo momento comprano beni sul mercato globale grazie a una legislazione che li ha resi ricchissimi con i soldi degli italiani, che in compenso non vedono un progetto infrastrutturale in grado di cambiare il Paese dall’alta velocità Milano-Roma e che stanno perdendo anche la compagnia di bandiera. 



Se l’investimento sulle autostrade italiane è senza rischio, allora i rendimenti a due cifre sono fuori dal mondo. In ogni caso possedere autostrade, un monopolio pubblico, in un mondo ideale di regolamenti ideali non dovrebbe trasformare fortunati imprenditori in fondi sovrani più ricchi dello Stato che li ospita. Se non cambia niente, come rischia di accadere vista la lunghezza delle concessioni, altri dieci anni di aumenti cumulati superiori a inflazione e Pil rischiano davvero di trasformare un bene pubblico in un bene di lusso. Con la beffa finale, oltre al danno, di vedere i soldi spesi per l’autostrada usati per acquisizioni carissime sui mercati finanziari globali. Acquisizioni, parliamo ovviamente in via del tutto ipotetica, che potrebbero persino venire scambiate per un modo elegante di far sparire il “malloppo”.