Un documento riservato del governo inglese, secondo quanto riportato da BuzzFeed News, sosterrebbe che in tutti gli scenari la crescita del Regno Unito al di fuori dell’Unione europea sarà più bassa che al suo interno. Nello scenario migliore, sempre secondo il report, la crescita sarebbe inferiore del 2%. Il documento è diventato la notizia economica del giorno alimentando l’ampia letteratura sulle conseguenze economiche della Brexit. Dovrebbe essere chiaro che queste previsioni, per quanto “scientifiche” e per quanto firmate da esperti, abbiano un valore relativo. Quello che si leggeva nel 2007 sulla crescita globale, quello che si leggeva nel 2011 sull’euro, quello che si leggeva nel 2014 sul futuro del prezzo del petrolio e il “peak oil” oppure, banalmente, quello che si è letto il giorno dopo le elezioni di Trump, oggi consiglia di prendere certe analisi con le pinze. Fare previsioni sul futuro è difficile quando la situazione evolve in modo normale, di fronte a rotture come la Brexit le previsioni diventano un esercizio teorico.
Le camere di commercio tedesche segnalavano che dal commercio con il Regno Unito, il terzo mercato per le esportazioni tedesche, dipendono 750 mila posti di lavoro. Uno studio della Deloitte di qualche mese fa evidenziava che l’industria auto tedesca sarebbe colpita duramente dalla Brexit. Possiamo discutere all’infinito su quale sarà il saldo tra benefici e costi per l’Inghilterra della Brexit e quale sarà l’atteggiamento di Francia e Germania (per cui l’Inghilterra è rispettivamente il quinto e il terzo mercato di sbocco) che in tempi di vacche magre e austerity difficilmente vorranno danneggiare una fetta così importante delle loro esportazioni. La verità è che oggi non sappiamo cosa succederà, non sappiamo come sarà il nuovo accordo commerciale e nessuno è in grado di tirare una conclusione minimamente certa su un cambiamento che influenza così tante variabili: la regolamentazione finanziaria, i dazi, la svalutazione della sterlina, ecc. Si potranno tirare le somme solo dopo diversi trimestri dalla conclusione di un accordo; in questo spazio temporale può succedere di tutto se si pensa che a settembre Schaeuble ipotizzava una futura uscita dalla Grecia dall’euro.
Il successo della Brexit ha in realtà fin dall’inizio un solo termine di paragone. Il successo o l’insuccesso della Brexit, sempre ammesso che si realizzerà, dipende da quello che farà o sarà l’Unione europea. Indipendentemente dalle ragioni con cui si spiega quello che è successo, populismo più becero o lucida scommessa, la questione dal punto di vista inglese ha senso come atto di sfiducia sulla capacità dell’Unione europea di crescere in modo equilibrato, per tutti i membri e non solo per il nucleo franco-tedesco, e di agire come moltiplicatore e non come limitazione per le economie di tutti i Paesi membri. Un’Europa che investe, cresce, dove aumentano i salari e dove gli squilibri tra centro e periferia si riducono rende la Brexit una scelta completamente perdente. Un’Europa che non cresce e non investe, affossata dai “protezionismi” cinese e, più recentemente americano e in cui la periferia ha un ruolo di colonia da cui il centro drena risorse a basso costo rende la Brexit una scelta lungimirante.
La finanza e gli economisti hanno capacità previsionali molto ridotte di fronte a scenari di tale rottura. Siamo abbastanza vecchi per ricordarci gli studi delle maggiori banche d’affari e dei più quotati economisti nel 2007, prima della crisi Lehman, nel 2010 prima della crisi dei debiti sovrani o nel 2014 prima del crollo del prezzo del petrolio. Ma di queste analisi, oggi, in un certo senso, non abbiamo bisogno. Più l’Europa va bene, più cresce, più diventa equa, più diminuirà la volontà di uscirne e più si giudicherà negativamente chi ne è uscito. Il vero test non è l’attuale contesto di crescita e ripresa globale, ma si avrà al primo rallentamento della crescita mondiale.