Questa settimana ci ha portato nel nuovo anno e, secondo Gustavo Piga, «il 2018 sarà una grande occasione per l’Europa e il nostro Paese». Il Professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma non nasconde che questa convinzione gli arriva anche dal bilancio che può trarre dal 2017: «Personalmente ho maturato rispetto all’Italia un senso di profonda ammirazione, soprattutto a livello politico».
Cosa l’ha portata a questo giudizio?
L’anno scorso ci sono stati sommovimenti politici che hanno influenzato il mondo e non per il meglio. Basta pensare alla Catalogna, alla Germania dove è entrato in Parlamento un partito vicino agli ideali nazisti, alla Francia con un “partito liquido” al comando, a Trump. In mezzo a questa situazione in Italia, Paese che più aveva da tremare vista la sua situazione economica, si è votato in Lombardia e Veneto per l’autonomia senza mai mettere in discussione la coesione nazionale, non si è mai pensato di uscire dall’Europa, non si sono avuti estremismi, uomini soli al comando, si è affrontata la crisi dei migranti da soli. Direi che paradossalmente, visto quel che si è visto nel 2017, l’Italia, nonostante le elezioni, può avere un ruolo importante per tenere in piedi l’Europa in futuro.
Torniamo al 2018 e alla grande occasione…
Visto il contesto globale, l’Europa deve diventare più forte e spero che abbia finalmente capito che non ci possiamo permettere di non generare una crescita inclusiva. Una crescita tout court non basta, perché è fragile, instabile e soggetta alle proteste della gente che non viene rappresentata dalle politiche. Questo vuol dire che l’appuntamento con il Fiscal compact è decisivo, perché l’inclusione si fa con le politiche fiscali, non con quelle monetarie.
La Commissione europea ha presentato la sua proposta di riforma dell’Eurozona e non sembra intenzionata ad accantonare il Fiscal compact.
In prima battuta, l’idea era di inserire il Fiscal compact nei trattati dell’Ue, dentro la Costituzione, un po’ come noi abbiamo inserito improvvidamente il pareggio di bilancio nella nostra. Questo non si farà: la proposta della Commissione europea prevede che si usi uno strumento legislativo di ordine inferiore, cioè la direttiva europea, che è molto più facile da cambiare e che comunque viene discusso molto più ampiamente all’interno del Parlamento europeo. Inoltre, il testo uscito dalla proposta della Commissione – che ha il difetto di non tener conto, come invece era stato previsto, di un dibattito valutativo sul Fiscal compact – contiene degli elementi di novità.
A cosa si riferisce?
Viene in particolare sminuito il ruolo della Commissione: questo vuol dire meno tecnocrazia e più politica. Poi ci sarà un dibattito per eventuali cambiamenti. Infine, la Commissione dice che il Fiscal compact si trasformerà in piani quinquennali di legislatura che i singoli governi metteranno a punto tenendo conto delle loro specifiche situazioni.
Questo cosa significa concretamente per l’Italia?
Significa che il nuovo Governo dovrà presentare il suo piano per il quinquennio e non sarà quindi più obbligato a raggiungere nel giro di due anni il pareggio di bilancio, ma avrà tutta una legislatura per farlo. Inoltre, dal testo sembrerebbe emergere anche la possibilità di cambiare gli obiettivi in funzione della situazione dei singoli paesi, magari anche di raggiungere dei target di deficit strutturale diversi da quello 0-0,5% del Pil che ci hanno imposto dall’alto. Il monitoraggio sarà poi delegato dall’Europa agli Uffici parlamentari di bilancio nazionali. Questo vuol dire maggior vicinanza al territorio anche dei “controllori”, un elemento di flessibilità aggiuntiva.
Sembrano novità davvero importanti.
Metto in chiaro che non sono certo felice di questo Fiscal compact, perché la logica resta quella di una direttiva che non dice nulla su come si gestiscono le crisi. Si prevede la possibilità di eccezioni, ma la profondità della crisi che abbiamo passato ci ha insegnato che durante certi periodi ci vogliono strumenti completamente diversi dal Fiscal compact: non è sufficiente astenersi temporaneamente dall’applicarlo. Spero che il nuovo Governo capisca che per chiedere cambiamenti al Fiscal compact deve portare sul tavolo negoziale qualcosa, ovvero la dimostrazione che quando l’Italia usa la leva fiscale lo fa bene, il che significa realizzare per la prima volta una vera e seria spending review.
Si è parlato già molto negli ultimi anni di spending review. Lei che cosa intende con questo termine?
Vuol dire non meno Stato, ma più Stato di qualità, meno Stato di sprechi. Vanno individuati gli sprechi, così da tagliarli e usare le risorse ricavate per fare vero sviluppo, cioè investimenti pubblici di cui c’è tanto bisogno. A quel punto l’Europa non può dirci di no sull’uso della leva fiscale come fa invece oggi dato che non ha mai avuto rassicurazioni sul fatto che abbiamo messo sotto controllo la macchina pubblica.
Un chiarimento Professore: i piani quinquennali derivanti dalla direttiva sul Fiscal compact andrebbero negoziati con Bruxelles?
Questo non è chiaro. Si capisce solo che l’Europa fornirà una cornice, nella quale dice a ogni Paese di trovarsi i propri obiettivi e convergere poi verso di essi entro cinque anni. C’è quindi un’ambiguità costruttiva, magari nuovi testi faranno più chiarezza, ma è positiva perché è come se l’Europa avesse riconosciuto che se si impiccia troppo fa caos e non porta a casa comunque risultati importanti.
La campagna elettorale è iniziata da tempo: perché di tutto questo non si parla?
Quanto meno non si parla più di uscire dall’euro. Certo è che i momenti elettorali non sono mai un tempo in cui sperare in proposte approfondite e serie, visto che si cerca di massimizzare l’enfasi mediatica. Forse bisognerebbe anche smettere di dire solo quello che i politici non fanno e cominciare a dire cosa dobbiamo fare noi per il nostro Paese. Da un lato anche la stampa dovrebbe interrogare i politici su questi temi, così da costringerli a informarsi e a prendere una posizione. E poi tutti noi cittadini dobbiamo parlarne, abbiamo più strumenti grazie alla tecnologia per farlo. La politica non potrà a quel punto eludere il tema.
(Lorenzo Torrisi)